Finale a sorpresa
Il concerto di venerdì 5 maggio 2023, tenutosi presso l'auditorium Arturo Toscanini di Torino, pone fine, per quest'anno, alla stagione di Rai NuovaMusica, col quarto appuntamento, dopo quello del 28/10/2022 (Schönberg, Nono, Carter, diretto da Gergely Madaras e recensito per queste colonne), del 10/02/2023 (Perocco, Ligeti, Henze, diretto da Marco Angius) e del 14/04/2023 (Ligeti, Illés, Kurtág, Eötvös, diretto da Robert Trevino; solisti: Jean-Guihen Queyras: violoncello; Tamara Stefanovich: pianoforte). In programma, curiose, interessantissime e autentiche novità per il panorama italiano, e torinese nel caso di una di esse, con ripescaggi di brani che mancavano da quasi quarant'anni dal capoluogo piemontese, eseguite dall'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai (OSN) sotto la direzione di Michele Gamba.
Si comincia con Photoptosis, Preludio per grande orchestra del 1968, di Bernd Alois Zimmermann (1918-1970). Grande è l'aggettivo giusto per l'organico richiesto: legni a tre/quattro (compresa l'insolita presenza di due oboi d'amore), ottoni a cinque, pianoforte, celesta, organo e una selva di percussioni. Visto l'anno di composizione e l'anno di morte dell'autore, siamo di fronte a uno dei suoi ultimi lavori (qui eseguito per la prima volta dalla Rai a Torino), commissionato dalla Sparkasse di Gelsenkirchen per celebrare il decennale dell'apertura del teatro musicale della città, il cui foyer fu progettato, in una fusione di architettura e pittura, da Werner Ruhnau e Yves Klein: e proprio alle superfici monocrome blu di quest'ultimo è ispirato Photoptosis, che nel titolo «unisce il carattere leggero e impalpabile della luce (fós) con il concetto di forza di gravità, di caduta implicito nel suffisso -ptosis (ptóse). […] Così come i lavori di Klein annullano la tradizionale funzione costruttiva del disegno e del colore, in maniera analoga Photoptosis dissolve ogni traccia di gesto musicale e di configurazione armonica in un'astratta superficie sonora» (Oreste Bossini, dal programma di sala). Il brano, ad avviso di chi scrive, dipinge, nel curioso tempo di ¼, un'atmosfera angosciosa, con lunghi pedali di archi, che pian piano si spostano nell'acuto (ma ha senso parlare di pedale in un brano atonale? Meglio dire semplicemente note tenute), intervallati da deflagrazioni sottolineate dai due tam tam, dalla grancassa e dal rullante: prende vita una musica estremamente evocativa, filmica, da colonna sonora di scene thriller. Pian piano il tessuto sonoro si ispessisce, fino a coinvolgere tutta l'orchestra, fino all'interessante chiusa, di grande impatto, che tronca bruscamente il brano all'acme della sua tensione. Ben camuffate, in questo incessante crescendo, le citazioni da musiche dei secoli precedenti, con le quali Zimmermann intende mantenere un rapporto, seppur flebile, di continuità: come in filigrana appaiono lacerti, in ordine cronologico, del Primo Brandeburghese di Bach, della Nona di Beethoven, del Parsifal di Wagner, del Poème de l'extase di Skrjabin, dichiarate in partitura.
Se Photoptosis viene eseguito per la prima volta a Torino, Schnur, per violino e orchestra, del tedesco Enno Poppe (1969), trova qui la sua prima esecuzione italiana. Scritto in collaborazione con l'amica violinista Caroline Widmann, che lo eseguì in prima assoluta a Bonn il 24/09/2019, Schnur – letteralmente “corda, spago” – esplora quasi per partito preso le possibilità espressive del violino sfruttando la tecnica del vibrato. È così che, dalle abili mani di Francesco D'Orazio e da uno dei suoi due violini, il Comte de Cabriac di Giuseppe Guarneri (Cremona, 1711) e un Jean Baptiste Vuillaume (Parigi, 1863), si dipanano suoni difficilmente riconducibili a questo strumento, sonorità e timbri impensati e stranissimi: la lunga e quasi ininterrotta melopea del violino, adagiata su un'orchestra ridotta rispetto a quella di Photoptosis, che sostiene il solista soprattutto grazie alle percussioni, ai timbri acidi degli ottoni con sordina su un tappeto uniforme di archi, assume onomatopeicamente i contorni di cigolii di porte che si aprono, inflessioni di una stridula voce umana o di queruli guaiti canini. Poi evolve, facendosi più inquieta, quasi annaspando, e poi ancora più inquieta, mentre cresce la partecipazione degli archi, per poi spegnersi e tornare onomatopeica, questa volta assieme agli archi. Infine, dopo un secco colpo di grancassa, il violino pone termine al brano con un vibrato più che sovracuto, dove si riesce a risalire al concetto fisico di striscio, di sfregamento di una corda sull'altra, a frequenze quasi inudibili, con le dita all'estremità della tastiera. L'impressione generale è più criptica, più interrogativa, e nell'insieme pare quasi un esperimento acustico, più che musicale: ma, ad ogni modo, un esperimento ben riuscito.
Dopo l'intervallo, il concerto prevede altri due brani: il primo è Stille und Umkehr – Sketches orchestrali, sempre di Zimmermann, sostanzialmente l'ultimo brano da lui scritto, nel 1970, prima di togliersi la vita, e che mancava a Torino dal 1984, quando venne diretto da Michael Zilm. L'orchestra si presenta qui al massimo delle sue dimensioni, coi fiati estesi, nel grave, al clarinetto contrabbasso (oltre a due clarinetti bassi) e al raddoppio del controfagotto; tuttavia, inizialmente, solo una piccola parte ne viene sfruttata. Un ostinato ritmico al rullante, che procede costante per tutta la durata brano, dà avvio all'ascolto, mentre tre flauti arpeggiano nel loro registro grave, tutto piano e pianissimo; poco alla volta si sommano altri elementi ritmici, a partire da un intervento dell'arpa a cadenza regolare, il tutto su una nota tenuta di base dai violoncelli, poi sostituiti da sassofono contralto e corno inglese e poi dalla fisarmonica, che si fissa nell'orecchio quasi inconsciamente, come una “piccola percezione” alla Leibniz, e che l'orecchio inizia a considerare presenza costante non più disturbatrice. Più avanti, clarinetti, clarinetto basso e controfagotto, in piano, agitano le acque con indistinti passaggi dissonanti, così come pure trombe e tromboni. È tutto un mormorio condotto per arpeggi e con sonorità sommesse, finché la pulsata ritmica del rullante si esaurisce e gli archi, con gesto vigoroso, si spingono in sovracuto e in piucchefortissimo, per poi planare al registro centrale. Lentamente risalgono la china, facendosi ansiogeni. Poco dopo, ecco un altro ostinato ritmico, ma stavolta selvaggio, simile a certi passaggi del Sacre stravinskijano, che coinvolge gli archi e tutti e sei i percussionisti. Un enorme crescendo, altri passaggi in aperto stile alla Stravinskij ad alta tensione e combinazioni di percussioni e vari strumenti portano il brano a isolare il fischio, quasi il pigolio, dei due ottavini in pianissimo nell'estremo registro sovracuto, anche qui come in Schnur ai confini tra il suono e il rumore, finché ne sopravvive solo uno, che chiude la composizione. L'orchestra si alza, riceve gli applausi e se ne va. Il pubblico rimane incerto se alzarsi o meno, perplesso dal fatto che il primo brano sarebbe dovuto durare sui dieci minuti, e ne son passati molti di più, e che i brani in programma fossero due. Si scopre che, sorprendendo tutti, il quarto e ultimo pezzo, Jonchaies per grande orchestra di Iannis Xenakis, del 1977, è stato legato senza soluzione di continuità a Stille und Umkehr, e che quest'ultimo è terminato là dove la pulsazione ritmica del rullante si è arrestata e gli archi si sono impennati: l'operazione, sicuramente concordata con gli orchestrali da Michele Gamba, ha così consentito di considerare il primo una sorta di calmo preludio allo scatenarsi delle forze orchestrali del secondo, scritto esattamente per centonove elementi e che simboleggia, nelle parole di Xenakis, la caparbia volontà di sopravvivenza delle forme di vita in un contesto inospitale come quello di una palude, fra le giunchiglie: jonchaies, appunto. La tecnica compositiva si rifà a modelli architettonici e matematici, in cui il processo cerebrale è trasfuso in combinazioni di suoni.
L'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai (OSN) ha avuto modo in questo concerto di esibire non comuni qualità di comunicazione tra le parti nelle perigliose esecuzioni del programma proposto, specialmente nel brano finale, data l'enormità, ma soprattutto la diversificazione dei ruoli, dell'organico. Si tratta di brani ove il fascino della melodia è totalmente superato in favore della componente ritmica e timbrica: ben più difficile quindi coordinare entrate e sincronie: sovente Gamba ricorreva a una sorta di conto alla rovescia, sollevando tre dita, poi due, poi una, al sopraggiungere di alcuni pieni strumentali. Ciascun elemento dell'orchestra sarebbe da chiamare a nome per stringergli virtualmente la mano nel complimentarsi per una resa di così grande impatto, nonostante l'innegabile ostilità d'ascolto. L'encomio è rivolto soprattutto alla sezione delle percussioni, chiamate a complesse coordinazioni ritmiche su strumenti insoliti, come i “cimbali antichi”, o che esulano dal classico concetto di strumenti percossi, come la sega ad arco, una sega da falegname suonata con l'archetto di un contrabbasso o di un violoncello. Da segnalare infine la grande capacità di Michele Gamba nel padroneggiare partiture veramente ostiche: incontrato fuori dall'auditorium, esse stentavano ad essere tenute sotto il braccio.
Applausi non molto convinti da parte di un pubblico poco numeroso, e come si è riferito, interdetto. Il concerto viene replicato al Teatro alla Scala di Milano domenica 7 maggio 2023.
Christian Speranza
10/5/2023
|