ALL'APERTO, MA DA CAMERA
Per una porta che si chiude, dicevano le nonne, c'è un portone che si apre. Non che ad Ancona sia andata esattamente così: eppure, la breve stagione open air (tre spettacoli in nove giorni, una recita a testa) di opere “da camera” nel cortile della Mole Vanvitelliana, chiamata a sostituire in fretta e furia i Verdi e Donizetti previsti in autunno al Teatro delle Muse, ha dato vita a una rassegna Covid free sanitariamente corretta e culturalmente intrigante nell'alternare – sotto il titolo generico di Kammeroper alla Mole – l'intermezzo buffo alla “serenata teatrale” e all' opéra-comique . Insomma una scommessa vinta, grazie a un Cimarosa immarcescibile (Il maestro di cappella), un Hasse per palati fini (Marc'Antonio e Cleopatra) e un Offenbach dichiaratamente minore – a cominciare dalle dimensioni – ma non da ignorare (Pépito). C'è da augurarsi che, pure a emergenze virali concluse, il teatro d'opera “cameristico” continui a essere proposto nel singolarissimo, pentagonale edificio di Vanvitelli affacciato sul porto, trasformando un ripiego in piacevole consuetudine. Tutti e tre gli spettacoli (questa recensione dà conto solo del Maestro di cappella e Pépito) sono andati in scena nella stilizzata e disadorna dimensione della mise en espace: per il Kammerspiel musicale, in fondo, era la scelta più logica. Ne ha beneficiato soprattutto Cimarosa, il cui Maestro si è così riappropriato della dimensione di cantata comica, senza tentazioni “rappresentative”. Basta d'altronde il mestiere consumato di Alessandro Corbelli, la sua arte di attore vocale prima ancora che di cantante-attore, per fare teatro con la voce e basta: voce che, dopo nove lustri di carriera, è oggi impoverita nelle risorse timbriche, ma – al pari dell'ultimo Bruscantini – trova nel gioco degli accenti una formidabile ricchezza di contrasti.
Con un commediante di tal calibro, il vis-à-vis tra musico e strumentisti narrato da Cimarosa e dal suo anonimo librettista lievita in una prova d'orchestra quasi “felliniana”, transitando dalla comicità realistica dell'involucro alla visionarietà della sostanza. Corbelli, infatti, è fraseggiatore cesellatissimo e il frastagliato, zigzagante monologare del Maestro viene come smontato e rimontato, in un'autentica anatomizzazione della parola; né lo stilista appare da meno dell'interprete, come quando, dopo tanto cantar parlando, al momento della parodia della grande aria “seria” si abbandona a un canto di portamento quasi gluckiano. E siccome Il maestro di cappella da solo non fa serata, lo spettacolo è ulteriormente proseguito nella formula del one man show, snocciolando nella seconda parte alcune delle più paradigmatiche pagine per baritono buffo: superfluo dire che Bartolo e Don Magnifico, Dulcamara e Don Pasquale sono stati restituiti con aderenza psicologica infallibile e tempi comici perfetti, anche se – sulla distanza – la voce del veterano comincia a stancarsi.
Impegnati pure nelle sinfonie di Barbiere, Cenerentola e Don Pasquale, che hanno inframmezzato le rispettive arie, i Solisti dell'Orchestra Filarmonica Italiana sono stati un ottimo valore aggiunto: dodici strumentisti che “pensano” come un'orchestra intera, restituendo in termini di amalgama e impasti ciò che non possono ottenere in termini di volume. Anzi, proprio grazie al loro assemblaggio “cameristico” aprono talvolta una finestra nuova, come quando, nella sinfonia del Don Pasquale, fanno apparire di conio squisitamente strumentale quell'Allegretto che, nel corso dell'opera, diventerà poi So anch'io la virtù magica. Stefano Rolli li guida con partecipata discrezione, compensando nelle sinfonie rossiniane certi inevitabili limiti dinamici – dodici strumentisti non possono fare dei gran “crescendo” – con un'agogica sempre all'erta.
Convincono meno, in Pépito, il braccio corretto di Marco Guidarini (Offenbach è musicista che richiede ai concertatori altri desiderata, rispetto alla correttezza) e la parimenti diligente prova dell'Orchestra Sinfonica Rossini: anche qui un piccolo organico, che ha indotto a utilizzare – di conserva con la versione ritmica italiana – una rielaborazione per complesso da camera. Ma, forse, è proprio la programmatica fragilità di quest' opéra-comique non più che simpaticamente abbozzata, il suo giocare con parafrasi e citazioni (Mozart e Rossini su tutti) come un'amabile sciocchezzuola priva di autonomia ontologica, che avrebbe richiesto, come nell'originale offenbachiano, un'orchestra un po' più sostanziosa. Tale da compensare sul piano fonico la vacuità della drammaturgia, insomma.
Qui abbiamo solo un triangolo comico-sentimentale (due spasimanti per una locandiera promessa sposa a un terzo, il Pépito eponimo, che non compare mai) con relativi motteggi, schermaglie e, in sottofinale, una sbornia colossale. Un po' poco, ma gli interpreti ci credono, e almeno uno dei tre – l'armena Maria Sardaryan – canta pure benissimo, con tutti i crismi del soprano leggero di antica scuola abbinata a giusta verve operettistica. Anche se in termini scenici il mattatore è Alfonso Antoniozzi, che non a caso si è fatto carico della mise en espace e aveva già affrontato Pépito nei primissimi anni della carriera: la voce – pur essendo un buffo della generazione di mezzo, non della vecchia guardia – lascia trapelare gli oltraggi del tempo più di quella di Corbelli, ma la finezza volpina del dicitore camuffa ogni magagna e il talento attoriale (le parti in prosa sono molte) è notevolissimo, non solo per se stesso ma per gli altri (Antoniozzi è un maestro nel porgere la battuta ai colleghi).
Il vento dell'Adriatico e un'ampia dislocazione di sedie per garantire il distanziamento d'obbligo hanno costretto a una microfonazione che, almeno alle prese con il Settecento cimarosiano, a tutta prima può lasciare perplessi. Uno scotto da pagare cui l'orecchio però si abitua quasi subito, anche perché l'amplificazione è stata non invasiva e a regola d'arte.
Paolo Patrizi
11/9/2020
La foto del servizio è di Giorgio Pergolini.
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