Ombre del passato
Un tempo, il rapporto genitori-figli aveva una durata biologica abbastanza limitata: detto in maniera più brutale, i genitori morivano abbastanza presto, senza quelle infinite cronicizzazioni dovute al progredire della medicina e che oggi sono la regola. La dipartita di un genitore, o di entrambi, in un lasso di tempo ragionevolmente esiguo, faceva sì che i figli, ancora abbastanza giovani e impegnati in un momento dinamico della propria vita (matrimonio, nascita di bambini, vitalità di sentimenti proiettati verso il futuro), assorbissero con estrema facilità il lutto, lo rielaborassero abbastanza in fretta e senza troppi contraccolpi psicologici. Ma, e di questo l'ipocrisia umana stenta a discutere, c'è un altro aspetto del rapporto genitore molto anziano-figlio, inquietante e gravido di una strana ambivalenza di sentimenti: assistere per anni, spesso da soli, un genitore malato e non autosufficiente, magari preda di demenza senile, genera nella prole, divenuta nel frattempo di mezza età o quasi, una serie di problematiche che vanno dall'aspetto puramente materiale dell'assistenza, con notevoli limitazioni della propria libertà individuale, a quello più squisitamente psicologico, giacché il combattimento diuturno con un anziano, spesso egoista, a volte maligno, altre francamente odioso, che è solo un evanescente riflesso del padre affettuoso o della madre amorevole di un tempo, mina sin nel profondo il rapporto parentale, col risultato, naturalmente ben celato e rimosso, per dirla con Freud, di un notevole e irresistibile senso di sollievo coincidente con la temuta (apparentemente) ma agognata (nascostamente) dipartita del vecchio in questione.
Che lo si accetti o meno, le cose stanno proprio così: vecchi tenuti in vita solo dalla medicina e figli sempre più anziani e stanchi che non ne possono più. Il brutto della faccenda è che a furia di assistenza, pannoloni, medicine, flebo, ciance senili sempre più inconcludenti, ripicche, asti e problematiche economiche di vario genere, i figli diventano genitori e viceversa, in una perversa inversione di ruoli alla fine della quale il rapporto parentale autentico svanisce completamente, insieme al carico di ricordi e di affettività che, a ben vedere, costituisce il vero e autentico legame tra le generazioni. Naturalmente, e non lo si può negare, è una situazione nella quale sia il genitore che il figlio sono vittime, entrambe più o meno indifese, l'uno perché preda dell'età, della malattia, l'altro dei propri sentimenti ambivalenti, dei quali ha comunque orrore.
Questa relazione distorta è il tema su cui si snoda un intenso atto unico di Furio Bordon, dal titolo Un momento difficile, andato in scena in prima assoluta l'8 maggio (con repliche sino al 20) allo Stabile di Catania, in coproduzione col Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, per la regia di Giovanni Anfuso, le scene di Alessandro Chiti, i costumi di Riccardo Cappello e le musiche di Paolo Daniele. Un testo essenziale, dal linguaggio talvolta crudo, che nulla cela della reale condizione del malato cronico, offrendo uno spaccato della vita che è costretto a condurre chiunque debba assistere un anziano all'ultimo stadio: qui la grigia vita del figlio infermiere viene indagata senza sentimentalismi religiosi, senza buonismi di sorta, nella sua devastante quotidianità. Ma nello stesso tempo proprio l'ambivalenza di sentimenti di cui si parlava prima diventa la possibile soluzione al dopo, al momento in cui il genitore morirà: nel crepuscolo che segue a una delle solite giornate divise tra pannoloni, medicine, litigi e ripicche con la madre, al figlio si manifestano due ombre biancovestite, che altro non sono che il fantasma del padre, morto da tempo, e la proiezione fantasmatica di quella che era un tempo la madre, giovane, vivace e determinata, amante della vita e apparentemente infastidita dal figlio piccolo che rappresenta un ostacolo alla sua libertà. Il dialogo tra i tre coinvolge il passato, il presente e il futuro del figlio: ritornano a galla ricordi d'infanzia, odori, atmosfere, equivoci irrisolti, intercalati dagli strilli del rottame umano immobilizzato nel letto. Passato e presente si fondono quando l'ectoplasma della madre giovane si siede sul letto dell'ammalata, le parla e parla al figlio, in un cortocircuito temporale possibile solo al teatro: in pochi istanti la vecchia e la giovane madre ricompongono un'unità, e aiutano il figlio a superare quello che è appunto il momento difficile, quando, morta la madre, non sarà mai più figlio ma, forse (anzi sicuramente) troppo tardi, solo un uomo, e un uomo ormai anziano, con i suoi ricordi.
Un testo amaro, tutto all'interno di una stanza che sa di morte, ma di una morte moderna, quella creata dalla stessa stortura scientifica che fa sì che sia possibile concepire figli a sessant'anni, stravolgendo di fatto gli unici equilibri biologici che andrebbero rispettati, pena il creare disadattati, infelici, o esseri umani privi comunque di un futuro: e non è un caso che a un certo punto la proiezione della madre chieda al figlio perché si è ostinato a tenersi la genitrice in casa e non l'abbia portata in una casa di riposo, mettendosi così in condizione di vivere la propria vita. La donna, dinanzi alle obiezioni tipiche del lasciar morire l'anziano in casa propria, dell'affettività e roba del genere, gli sbatte in faccia la realtà, affermando che sì, e nessuno può saperlo meglio di lei, per quella vecchia non ha nessuna importanza morire a casa o in ospedale: ciò che avrebbe dovuto fare il figlio era invece mantenere intatto il ricordo dei due giovani genitori innamorati e felici e, proprio in nome di ciò, seguire le loro orme e farsi una vita propria.
La regia di Giovanni Anfuso è riuscita a mantenere un perfetto equilibrio tra il piano reale e quello psicologico-surreale del lavoro, pur mantenendoli nettamente distinti: all'inizio Massimo Dapporto e Ileana Rigano, rispettivamente il figlio e la madre anziana, svolgono il loro rapporto su un tono colloquiale e realistico, punteggiato qua e là di amari spunti comici, ma l'irrompere sulla scena dei due fantasmi, i cui abiti bianchi, attillati e molto particolari contrastano crudamente col grigiore della giacca da camera del figlio, introduce una nuova dimensione: i due attori, Francesco Foti e Debora Bernardi, il padre e la madre giovani, recitano contemporaneamente come personaggi reali ma anche come proiezioni ectoplasmatiche, più o meno, mutatis mutandis, secondo i canoni indicati da Pirandello per i ruoli dei Personaggi, in Sei personaggi in cerca d'autore. Danno cioè, e qui si rivela la maestria del regista, la sensazione di essere fuori e dentro l'azione contemporaneamente: se nella dimensione del ricordo si muovono con una gestualità più vivace, con una dizione più impostata e stentorea, interagendo col figlio nella realtà della stanza della malata recuperano immediatamente una colloquialità più intima, che si esprime nel repentino ammorbidirsi della voce e in una pacatezza realistica della gestualità. Un lavoro quasi di sdoppiamento dunque, che non sarebbe stato possibile senza un lungo cesello di prove, che risulta palpabile allo spettatore esperto, e che ha dato vita a uno spettacolo nel quale nulla è stato lasciato al caso, a partire dalla scelta degli attori, di fatto quattro protagonisti: se Massimo Dapporto ha profuso tutta la sua esperienza di attore, ricreando una figura umanissima, dietro la quale si avverte tutta la sofferenza e il disagio di un figlio ormai anziano e di un uomo che ha di fatto rinunciato alla propria vita, Ileana Rigano ha scolpito una figura di vecchia malata e demente reale ma immune da forzature caricaturali; Francesco Foti ha prestato al suo personaggio la nonchalance di un padre affettuoso e di un marito accomodante, tenero sia col figlio, del quale conosce e comprende i limiti, che con la moglie, dei tradimenti della quale è stato sempre al corrente, ricambiandoli. Proprio in questa serenità di fondo del padre si annida un ultimo messaggio affidato al figlio, ormai vecchio quanto lui: nulla va idealizzato o messo sopra un piedistallo nella vita, il padre e la madre non sono divinità infallibili, ma esseri umani come tutti, talvolta fatui, inconcludenti, preda di sentimenti ambivalenti anche nei confronti della loro prole. E questa ambivalenza affettiva di una donna divenuta madre troppo presto Debora Bernardi è riuscita a evidenziare con grande sensibilità nel suo personaggio, di fatto raccordo tra il piano ideale e quello reale, l'unico che a un certo punto sia costretto a dialogare e interagire col suo sé ormai anziano e in punto di morte, in poche battute nelle quali queste due figure sembrano riunirsi e fondersi per un istante solo dinanzi agli occhi del figlio.
Giuliana Cutore
11/5/2018