E la nave va…
Moltissimi anni fa, quando ancora esistevano le ideologie, ed essere di sinistra significava qualcosa di molto preciso, e non la pappina informe condita di liberismo berlusconiano cui il passato (ma ancora tra i piedi) governo a trazione PD ci ha abituato, la letteratura gialla, noir, basata insomma su delitti più o meno misteriosi, veniva considerata come la quintessenza del disimpegno, di quell'atteggiamento cioè opposto all'engagement sartriano che imponeva allo scrittore di veicolare sempre e comunque, attraverso i suoi scritti, un messaggio sociale, in grado di scuotere la coscienza dei lettori, spingendoli a prendere posizione contro le ingiustizie della società, e in particolare a favore del comunismo, considerato il rimedio sovrano a tutti i mali dell'umanità.
Lasciando da parte il fatto che il comunismo non si è poi rivelato questo rimedio sovrano, e che una volta applicato ha avuto le stesse poco igieniche abitudini delle ideologie destrorse, dedito com'era e com'è a calpestare le più elementari libertà umane e a perseguitare gli intellettuali dissidenti, basterebbe prendersi la briga di leggere qualche giallo classico, contemporaneo o no, per capire che sovente l'apparente disimpegno del poliziesco o del noir cela un impegno sociale molto più incisivo dei romanzi o lavori teatrali superideologizzati di epoca sovietica, spesso simili più a trattati di edificazione morale di stampo cattolico che a opere di narrativa o di teatro, e ugualmente privi di ogni merito artistico. Infatti, se Poirot stigmatizzava le stupide abitudini dell'alta borghesia sulla quale indagava, Nero Wolfe infarciva le sue riflessioni poliziesche di polemica contro il nazismo, il fascismo, e il comunismo, e giudicava il razzismo una delle cose più idiote che la mente umana abbia mai partorito. Quanto al contemporaneo Montalbano, Camilleri ce lo descrive come un poliziotto tutto sommato scomodo, che conosce le connivenze mafiose, che capisce e comprende il dramma dell'immigrazione, così come il commissario Ricciardi creato da De Giovanni, che vive in epoca fascista e a questo regime è ferocemente avverso.
Su questa linea di apparente disimpegno si colloca a buon diritto Il mondo non mi deve nulla, commedia brillante, prodotta da Teatro e Società, Accademia Perduta/Romagna Teatri e CSS Udine, in scena al Teatro Stabile di Catania dal 3 all'8 aprile: scritta da Massimo Carlotto, apprezzato scrittore italiano, che negli Settanta fu protagonista e vittima di un controverso caso giudiziario di cronaca nera, del quale qualunque detective tra quelli citati sopra avrebbe compreso l'insussistenza in un battibaleno, è la storia di due individui di fatto naufraghi della società, un ladruncolo malgré lui e una croupier in pensione di origine tedesca, che il caso fa incontrare, complice un maldestro tentativo di furto dell'uomo, Adelmo, in casa dell'enigmatica Lise, rifugiatasi a Rimini dopo una vita trascorsa sulle navi da crociera. Fin qui il giallo, o meglio l'abbozzo di giallo con un colpevole giù bello e scoperto, senza alcun interesse per nessun detective: il problema però è perché Adelmo e Lise sono quel che sono, e perché Lise è disposta a pagare centomila euro ad Adelmo perché lui la uccida. Adelmo è diventato ladro perché non ha lavoro: è una delle migliaia di vittime della Fornero, forse un esodato, uno dei tanti martiri della corruzione italiana, di una politica che ha pensato solo a se stessa e non ai cittadini; Lise è una vittima, lei croupier che nella vita è sempre riuscita a intuire la menzogna e a smascherare i bari, di una prostituta furbissima, che l'ha blandita prima e depredata di tutti o quasi i suoi risparmi. Chi è questa prostituta? Una banca, il cui direttore l'ha convinta a investire tutto nei famigerati derivati…. sia o meno Banca Etruria poco importa, la sostanza non cambia.
Con ilarità e leggerezza apparenti, il dramma di queste due vittime della politica si tramuta pian piano in una situazione grottesca, tra ricordi del passato e miserie della vita presente, sullo sfondo di una Rimini sonnolenta e in attesa dei turisti, che le oniriche proiezioni su disegni di Laura Riccioli rendono notturna e sognante, come la scena di Ganluca Amodio dominata dal fastoso salotto di velluto rosso di Lise, quasi la cabina di una delle tante navi di lusso sulle quali ha viaggiato la donna. La sensazione di naufragio avvolge i protagonisti, il loro dramma si fa fisico nei passi di mambo, nell'attrazione erotica che li unisce e li sovrasta come un'onda, fino all'inatteso, ma fin troppo comprensibile, finale.
La regia di Francesco Zecca ha enfatizzato questo clima da nave dei folli, di cui la fisicità prorompente di Pamela Villoresi è stato un elemento essenziale: svagata e in apparenza svampita, volutamente leziosa nell'italiano infarcito di pronunzia tedesca, mordace e sdegnosa, ha tratteggiato una figura di donna affascinante, dove si avvertivano gli echi lontani della protagonista di Viale del tramonto. Una superba prova attoriale, quella della Villoresi, dove l'uso magistrale della voce contribuiva a creare un alone di mistero e al tempo stesso di suprema delusione e disinganno. L'Adelmo di Claudio Casadio era invece costruito sulla bonarietà emiliana, su una dizione sporca che ricordava un altro apparentemente disimpegnato personaggio, quel don Camillo creato da Guareschi che stigmatizzava le contraddizioni dei comunisti. E del grande Fernandel Casadio aveva la gestualità apparentemente disordinata, a tratti irruenta e iperrealistica, unita a una mimica eccezionale, che gli ha permesso di scolpire un personaggio umanissimo, disarmante nella sua delusione esistenziale, focoso e irruento ma tenerissimo nel suo divenire infine naufrago a tutti gli effetti, con il ricordo di Lise come unica scialuppa di salvataggio.
Giuliana Cutore
6/4/2018
La foto del servizio è di Federico Riva.