Cui prodest?
Ero ancora all'università quando uscì una sorta di libello filosofico, il cui autore, se ben ricordo professore di un prestigioso ateneo del nord, venne osannato dalla critica come una delle più eccelse vette del pensiero contemporaneo: ad un'attenta lettura, il libello in questione si svelò come un'accozzaglia di pensieri più o meno in libertà, privi di qualsivoglia rigore teoretico, e in ultima analisi rabberciati alla meglio sugli aforismi di Nietzsche, con una spolveratina qua e là di Heidegger, il tutto condito da rimembranze adorniane. Il commento del mio relatore fu un lapidario: «Signorina, ormai c'è tutta l'Italia che pensa!».
Chissà perché, questo ricordo giovanile mi è balzato vivido alla mente alla prima di Crollasse il mondo, storia di Reginaldo e Luisa, di Alessandra Mortelliti, che ha debuttato al Musco di Catania il 10 febbraio, interpretato dalla stessa Mortelliti e da David Coco: le note di regia annunciavano la storia di un incontro tra due perfetti sconosciuti, gettati dal gioco del destino nella stessa stanza di un motel, che finiscono per tramutarsi in amici involontari, in una lunga notte dove “il tempo si trasforma in una bolla sospesa”. Una storia in partenza abbastanza intrigante, sul tema della convivenza tra umani, magari ammiccante all'inferno sartiano di Huis clos, ma che tutto sommato avrebbe potuto funzionare sul palcoscenico, vista comunque la non estrema novità del soggetto, confinante ampiamente con le tematiche del teatro dell'assurdo e con quello esistenzialistico. Insomma, nel peggiore dei casi, almeno credevo, avremmo assistito ad una rielaborazione delle tante pièce che con ben altra incisività hanno affrontato il tema della comunicazione, della dialettica uomo-donna, del disagio esistenziale e via dicendo.
La scena si apre su una squallida stanza di un motel di periferia, con Reginaldo accartocciato sul letto in calzoncini e maglietta: un buon quarto d'ora trascorre assistendo alle evoluzioni del suddetto intorno alla stanza, con un passo strascicato che ricordava il nato stanco della pubblicità dei materassi di tanti anni fa, evoluzioni condite da due o tre tentativi di suicidio, il tutto in un religioso silenzio, rotto solo un paio di volte dall'ingresso di Luisa, e dalle sue richieste di shampoo, cachet per il mal di testa, e infine dall'installarsi definitivo nella stanza della donna, armata all'improvviso di pistola puntata contro lo spaurito Reginaldo. Benissimo: a balzelloni, visto che Luisa recita in un americano da bassifondi, che nel corso del lavoro si tramuterà in napoletano prima e italiano poi, e che l'uomo continua a trincerarsi in un silenzio ostinato, si apprende che i due si trovano lì (ma lì dove?) per un concorso per sosia di cantanti famosi, che Luisa è costretta a passare la notte nella stanza di Reginaldo perché qualcuno la cerca, evidentemente per ammazzarla, e amenità del genere. E giù un'altra mezz'ora buona fatta di Luisa che va al bagno e si porta dietro la chiave della stanza, di Reginaldo che tenta altre tre-quattro volte il suicidio, ma che alla fine si accontenta di andare in bagno, per poi ricominciare con la logorrea torrenziale della donna, per poi di nuovo Reginaldo che si vuole suicidare, gente che bussa alla porta, bagno-frigorifero-letto-logorrea-suicidio eccetera eccetera.
Insomma, un'ora e mezza abbondante di un'amicizia che non decolla, di una bolla temporale più simile alle bollicine dell'acqua minerale, di un testo che non riesce ad essere comico nè serio perchè non sa dove andare, di un dialogo senza spessore, inconcludente e soprattutto di una noia mortale: un copione che orecchia i romanzi on the road della beat generation, le atmosfere claustrofobiche di Stephen King, la malafede sartriana nell'agguato continuo della celeberrima battuta “L'inferno sono gli altri”, che non arriva mai perché sarebbe davvero troppo, con una spolveratina finale di rimembranza dell'uccisione del fratello gemello da parte di Reginaldo, che da balbuziente che era all'improvviso non balbetta più, con conseguente racconto dell'improbabile delitto accompagnato da terapie psichiatriche casalinghe da parte di Luisa, il tutto alla fine di tagliuzzamenti vari di torace e ventre sul palcoscenico e di testate grandguignolesche sul frigo del motel, con conseguente straripamento di sangue, tanto per dare un tocco da telefilm americano.
Roba da dire non che c'è tutta l'Italia che pensa, ma che scrive sì, e senza aver nulla da dire…
Una nota ancora: ma con quale criterio lo Stabile di Catania sceglie i lavori da proporre al pubblico? Con quello di una aperta ostilità contro la scrittura teatrale? Con l'intento di far scappare il pubblico? Con quello di sostituirsi ai sonniferi? O forse è convinto che i catanesi abbiano la sveglia al collo e l'anello al naso?
Giuliana Cutore
12/2/2015
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