Per non morire di mafia
La mafia non è stata mai assimilabile alla delinquenza comune, al crimine organizzato tout court. Essa è invece una vera e propria Weltanschaung, una visione della vita e dell'esistenza il cui corollario assoluto vede nello stato sempre e comunque un nemico, un antagonista, un predatore da sconfiggere e comunque da imbrogliare. La politica pertanto è intesa dai mafiosi solo come mezzo precipuo per egemonizzare e utilizzare strutture e organizzazioni statali al fine di accrescere il loro potere ed aumentare le loro ricchezze. Molte connessioni fra Cosa Nostra e interi settori dell'amministrazione pubblica italiana sono oramai innegabili, come attestato non solo da innumerevoli processi svoltisi dal dopoguerra fino ai nostri giorni ma anche da “frequentazioni” poco chiare fra alti dirigenti dello stato e noti “faccendieri”. Come dimenticare politici come Scajola, i quali non ricordano nemmeno chi ha acquistato per conto loro una casa, oppure dame della carità come l'ex ministro Cancellieri che telefona a casa Ligresti per consolare (e non solo) un'intera famiglia di inquisiti?
Ma lo spettacolo presentato al Teatro Verga di Catania l'8 aprile 2014 (repliche fino al 13) proposto nella Stagione dello Stabile etneo, tratto dall'omonimo volume Per non morire di mafia, scritto dall'attuale presidente del nostro Senato Pietro Grasso, ha offerto una carrellata a volo pindarico non solo del livello mafioso più diplomatico e affaristico ma anche e soprattutto di quello più sanguinario e aggressivo, quello delle stragi e degli omicidi. Quello che nel corso degli anni ha trucidato sindacalisti, giornalisti, imprenditori, politici, poliziotti e magistrati come Placido Rizzotto, Mauro De Mauro, Pietro Scaglione, Peppino Impastato, Boris Giuliano, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, Pio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giuseppe Fava, Beppe Montana, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino.
Sebastiano Lo Monaco è stato il vero e proprio mattatore della serata, riuscendo da solo a tenere viva l'attenzione del pubblico, con la sua incisiva e dirompente recitazione, per circa un'ora e mezza, senza flettere mai per un solo istante verso la banale perorazione o il futile pistolotto moralistico. La sapiente versione scenica di Nicola Fano, il coerente adattamento drammaturgico di Margherita Rubino e l'oculata regia di Alessio Pizzech hanno permesso al personaggio di espandersi e dilatarsi oltre la sua propria individualità ed approdare verso sponde nelle quali veniva coinvolto il sociale e il pubblico. Così la solitaria storia di un magistrato impegnato nella lotta contro la Mafia veniva sublimata ed elevata di fatto a storia collettiva di un'umanità che tende a districarsi dalle catene della connivenza e del malaffare per riscattare la sua coscienza morale e civile.
Ben congegnate e costruite anche le scene di Giacomo Tringali, i costumi di Cristina Darold, il disegno delle luci di Luigi Ascione ed i canti tradizionali di Clara Salvo.
La pièce alla fine sembra dischiudere un varco fra le tenebre, sembra aggrapparsi alla tenue speranza di un domani senza Cosa Nostra sia in Sicilia che in Italia, ma chi scrive, pessimista per natura, almeno su questo specifico argomento condivide l'opinione di Umberto Galimberti esternata su "D La Repubblica delle Donne" nel 2003: «In Italia la lotta alla mafia non sarà mai vinta, perché la mafia non è altro che la versione truculenta del costume diffuso, dove la parentela, la conoscenza, lo scambio di favori, in una parola, la rete “familistica” ha il sopravvento sul riconoscimento dei valori personali e sui diritti di cittadinanza.» E a quanto pare i molti fatti di cronaca giudiziaria e politica di questi ultimi anni, nonostante i colpi pesanti e ponderosi inferti alla Mafia, sembrano confermare la sopradetta cinica ma nello stesso tempo molto realistica affermazione dell'acuto Galimberti.
Giovanni Pasqualino
10/4/2014
La foto del servizio è di Margherita Mirabella.
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