RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

ROSSINI? NON SEMBRA GIOACHINO.

OTELLO A LIEGI

Otello ossia Il Moro di Venezia (Napoli, Teatro del Fondo, 4 dicembre 1816) è la diciannovesima partitura sfornata dal ventiquattrenne Gioachino Rossini, che ne comporrà altre venti, concludendo a 37 anni con Guillaume Tell (Parigi, Opéra, 3 agosto 1829) la folgorante e rapinosa carriera teatrale.

Del libretto del coltissimo intellettuale Marchese Francesco Berio di Salsa in un ponderoso saggio giovanile l'ormai anziano Ferruccio Tammaro ha creduto di mettere in luce tutta l'inadeguatezza. Berio sarebbe totalmente negato come librettista? In compenso Tammaro dimostra di non sapere leggere i libretti, nemmeno il dettaglio che, a differenza del successivo omonimo verdiano ambientato a Cipro, l'Otello di Rossini non si smuove di un passo da Venezia. Ben più autorevolmente interviene Philip Gossett: « Senza dubbio funziona, anche se non è certamente brillante».

Resta il fatto che su quei versi, a cui forse non fu estranea la mano dello stesso Gioachino, sbocciò un fulgido melodramma, nella magnificenza del Rossini consueto nonché dell'inconsueto, con lo svettante, straordinario terzo atto, che a suo tempo destò l'ammirazione del giovane Meyerbeer. Piuttosto ci colpisce, ormai in clima di restaurazione borbonica, il tono “libertario” di chi scopertamente parteggia per l' outsider africano, le cui vittorie in guerra avvantaggiano sì la Repubblica di Venezia, la quale però è prodiga soltanto di modesti allori di circostanza. Come può Otello infatti aspirare alla cittadinanza veneziana e a veder riconosciuta come legittima la sua unione con Desdemona, concupita per di più dal figlio del Doge, Rodrigo?

Per la prima volta sulla scena liegese, questo Otello rossiniano dell'ORW richiama alla memoria del vecchio elefante sottoscritto tre illustri precedenti belgi: l'allestimento ronconiano della Monnaie di Bruxelles, seguito in loco parecchi anni dopo da una versione oratoriale non meno ragguardevole, nonché l'edizione della Vlaamse Opera con l'imprimatur di Alberto Zedda.

Quest'Otello sulla Mosa è in parte salvato dalla messinscena, che si rivela la componente di gran lunga più interessante dello spettacolo. L'azione è posticipata all'indomani della prima guerra mondiale e situata in un'indefinita Venezia, che potrebbe essere benissimo la capitale di una monarchia balcanica (il che ci può stare). Soffocato tra le spire dell'alta società civile e militare, Otello, vincitore della guerra contro i turchi ma pur sempre alieno, finirà stritolato. Sì, ma la sua alienitudine risulta qui evanescente: in che cosa il moro (moro?) si differenzia dai sazi e compiaciuti signori con le distinte consorti e dai tronfi e supponenti generali e colonnelli, gli uni non meno ipocriti e falsi degli altri? Non si chiama neanche Dreyfus!

La scena unica di Daniel Bianco mostra un vasto, sontuoso salone di dimora aristocratica, con ampio scalone verso il piano superiore, e che si affaccia su un giardino: spazio largo eppure angusto, in cui l'accorta mano del regista Emilio Sagi dipana, con bella fluidità, i movimenti ben coordinati dei solisti e dell'entourage elegante.

La direzione rassicurante ma poco trascendentale di Maurizio Benini ha guidato la diligente orchestra della Casa mentre il Coro affidato a Denis Segond si è disimpegnato decorosamente. Ma al malioso belcanto rossiniano è risultato abbastanza estraneo lo stentoreo quasi verismo dei vari interpreti. Appassionata ma non appassionante la Desdemona del soprano Salome Jicia - che comunque se la cava nella Canzone del Salice del 3° atto - di fronte al solido ma non allettante Otello del tenore Anton Rositskiy. Quest'ultimo, chiamato in extremis a rimpiazzare il tenore titolare indisposto, ha cantato a margine con lo spartito davanti, mentre una controfigura mimava alquanto inverosimilmente il protagonista. L'impettito Jago in divisa del tenore Giulio Pelligra è abbastanza subdolo come si conviene, ma del pari stridente quanto insopportabile. La sottigliezza e l'eleganza dello stile se le accaparra facilmente il tenore Maxim Mironov, viscido Rodrigo, il solo rossinianamente credibile.

Il basso Luca Dell'Amico non avrà mai un timbro accattivante ma impersona correttamente Elmiro, genitore di Desdemona, uno dei tanti padri dispotici e odiosi che ingombrano il melodramma, da Argirio al Marchese di Calatrava e oltre. Non vanno dimenticati la trepida Emilia del soprano Julie Bailly ed il tenore Pierre Derhet nel breve ma significativo ruolo dello sconsolato Gondoliere, che intona fuori scena i versi danteschi.

Quasi un poscritto. Nei programmi di sala dei teatri figurano di solito brevi profili artistici dei componenti del cast, forniti presumibilmente dalle agenzie. Di un direttore, ad esempio, è importante precisare che ha già diretto Le nozze di Figaro e La Traviata? Ma chi è che non lo ha fatto? Si tace invece che Maurizio Benini ha diretto tra l'altro due opere di Mercadante e Salvator Rosa di Gomes e che Salome Jicia ha cantato Giovanna d'Arco di Verdi e La Straniera di Bellini (e l'uno e l'altra vi si sono distinti con più suadente ardore).

Fulvio Stefano Lo Presti

27/12/2021

Le foto del servizio sono di J. Bergier.