RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

Un Requiem per l'umanità

È ormai sempre più raro uscire da un teatro proficuamente pensierosi, coscienti di aver assistito a uno spettacolo il cui senso ultimo travalica e completa quanto visto sulla scena, un senso ultimo che va meditato, esplorato, compreso nella sua ricchezza e attualità. E forse è questo il vero significato di quella cultura di cui oggi si parla e si straparla, continuando a ripetere come un mantra che il teatro è cultura, ostinandosi a scambiare per cultura l'assistere passivamente a uno spettacolo, magari tanto per sapere che il tale o il talaltro autore ha scritto l'una o l'altra opera, o per farsi quattro risate, ma lasciando intatta la visione (o sarebbe meglio dire la non comprensione) della realtà che ci circonda, anzi evadendo da essa, chiudendola tra parentesi, il che a ben guardare è l'esatto opposto di quella cultura che, in epoche passate, ma nemmeno tanto poi, veniva descritta soprattutto come impegno, come volontà e capacità di comprendere la realtà circostante, magari per tentare di modificarla e di renderla più consona alla nostra autentica essenza umana.

In tale ottica, Deadbook, scritto e diretto da Francesco Maria Attardi, in scena al Piccolo Teatro di Catania dal 23 al 27 ottobre, è riuscito a rammentarci certi intensi esperimenti teatrali che costituivano davvero un pugno nello stomaco per lo spettatore: pugno nello stomaco quanto mai utile, se riusciva a scuotere almeno il venti/trenta per cento delle coscienze dei presenti in sala, e ancor più utile se destava perplessità nelle altre, e addirittura un virtuoso sdegno nei benpensanti. Così succedeva per Mistero Buffo, così per L'anima buona del Sezuan, per non parlare de La professione della signora Warren, tutte opere il cui fine precipuo era mettere in crisi una visione accreditata della realtà, una visione accomodante, rassicurante, in grado di tenere tranquille le coscienze di tutti.

La storia narrata da Deadbook, letteralmente libro di morte, il cui ammiccare in negativo a Facebook è abbastanza intuibile, è una storia antica quanto il mondo, riassumibile nell'adagio homo homini lupus di hobbesiana memoria, o anche nel più semplice mors tua vita mea: una ventina abbondante di persone, di varie età, estrazioni culturali, stato di salute, inclinazioni sessuali e colori, si trovano chiuse in un ambiente buio, su cerchi rossi, dai quali apprendono a proprie spese che non devono muoversi; ciascuna di loro scopre di essere in possesso di un cellulare, che è lo strumento attraverso il quale, con un semplice e apparentemente innocuo like, a un dato segnale acustico, possono determinare la morte di uno o più dei loro compagni di sventura. Inizia così un gioco al massacro, in cui ciascuno, convinto che, come per gli Highlander, “alla fine ne rimarrà solo uno”, cerca con le buone o le cattive, con la dialettica o con l'inganno, di sbarazzarsi dei compagni. Fin qui sembra il classico gioco di ruolo, e magari vengono in mente certi film gialli o la fantascienza angosciosa di The Cube, anche perché, prima dello spettacolo, ogni spettatore è stato avvertito che potrà intervenire, via cellulare, nell'eliminazione dei malcapitati: il problema però è che, nel prosieguo dell'azione, ci si accorge che le domande che vengono inviate e alle quali si deve rispondere per eliminare qualcuno non influiranno sulla vicenda, perché è il dialogo tra i personaggi a porre lo spettatore in un'ottica istintiva, guidata, giacché è come se sul palcoscenico si svolgesse plasticamente la lotta tra l'umanità e la bestialità, tra la reazione e il progresso, tra l'oscurantismo e la laicità.

Tutto questo però alla luce di qualcuno che rimarrà, cosa di cui tutti sono convinti, anche il pubblico, ma alla fine non rimane nessuno: dopo che un bambino, stanco di vivere perché la sua esistenza è un inferno, sceglie volontariamente di morire, dopo che l'uomo bestia che odia gli omosessuali viene eliminato ovviamente dal pubblico, dopo che un invalido accetta di morire per far vivere persone più giovani di lui, dopo che un avvocato non riesce a sopravvivere grazie alla sua loquela ingannatrice, dopo che si è eviscerato il problema di far restare in vita l'unica donna incinta, dopo tutto questo, chi rimane si sente finalmente tranquillo, ed è quello il momento in cui il sistema impersonale decide la sua eliminazione. E allora?

Allora l'umanità che vien fuori da questo lavoro non è proprio cosa di cui andar fieri: l'uomo è un essere che agisce e vive nella convinzione di essere eterno. Perché è questa supposizione di eternità che spinge i protagonisti di Deadbook al gioco al massacro: io ti imbroglio perché voglio vivere, e sono convinto che vivrò, così come nella vita reale ti imbroglio per avere più soldi, più potere, dimenticando che alla fine di tutto c'è un unico punto fermo: la morte. Eppure sin dall'inizio una bambina prigioniera insieme agli altri aveva citato brani de A livella di Totò, ma nessuno ci aveva fatto caso, perché per gli uomini le parole sono solo parole, chiacchiera, strumento per passare il tempo…

Metafora della vita di ogni giorno, Deadbook è un testo impietoso ma assolutamente onesto e adeguato nella descrizione dell'uomo, e non solo dell'uomo contemporaneo, ma dell'essenza umana in generale. Autentico teatro sociale, riesce a far scomparire gli attori nel testo, rendendoli docili strumenti al servizio di un copione di rara intensità, che non concede un attimo di tregua allo spettatore, invischiandolo nel suo gioco perverso come in una tela di ragno.

Giuliana Cutore

24/10/2019