RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Viva la libertà

Cosa ci si aspetta da una replica pomeridiana, in un mercoledì feriale, al Teatro Comunale di Bologna? Avevamo già pronto il nostro armamentario pregiudiziale: pubblico di mezza età, di una certa età, pellicce e pellicciotti, scarpe lucide e teste bianche; insomma, ricchi pensionati della Bologna bene, che approfittano dell'orario prepasto per non far tardi ed essere a casa prima delle dieci.

Niente di tutto ciò.

Il pubblico che accorre a un teatro stracolmo riflette la vitalità delle strade bolognesi all'ora dell'aperitivo, è eterogeneo, felice, pieno di giovani, quasi a preannunciare l'abolizione del sipario voluta dal regista Sivadier e in un certo senso chiamato a partecipare in una sorta di installazione artistica collettiva, dove le feste di Don Giovanni incominciano in piazza, piazza Verdi antistante il Teatro, e sbocciano sulla scena. Don Giovanni è già lì, ad aspettarci, e ci fissa durante l'ouverture, caricato dal netto fascio di luce di un seguipersone che fa capolino dal loggione; e mentre quei cinque minuti scorrono veloci, il fisico prestante di Alessandro Luongo in camicia sbottonata assimila e interpreta la musica con gesti misurati e significativi, una sorta di coreografia accennata ma capace di svelare sfumature di un carattere. Complice l'orchestra quasi invisibile in una fossa profonda e nascosta, la calda melodia dei legni si fonde con il legno del parterre e, sebbene l'acustica non sia delle migliori, ci regala un Mozart delicato, sussurrato, un lavoro di cesello nelle mani del Maestro Michele Mariotti, qui nella sua ultima – ahimè – collaborazione col Teatro Comunale.

Sul grande palco del Comunale non ci sono quinte, si ha l'impressione che la scena sia ottenuta per sottrazione, la rimozione quasi casuale e sbrigativa di arredi e oggetti di scena, affastellati ai bordi di un grande praticabile inclinato verso il pubblico; nel complesso la scenografia di Alexandre De Dardel assomiglia a un disegno stilizzato su uno spesso foglio bianco e sgualcito, dove la leggerezza degli arredi e delle attrezzature, costituite per lo più da tessuti agganciati ad americane mobili o maneggiati direttamente dagli interpreti, rivela tutta la sua efficacia in contrapposizione alla monoliticità del fondale, un muro di calce grezza, una tela ideale che nel corso dell'opera viene modificata attraverso vari espedienti, diventando una sorta di commento d'appendice ai fatti del proscenio. Ciò che colpisce in questo enorme spazio che non risulta mai vuoto è inoltre il sapiente dinamismo ideato dal light designer Philippe Berthomé, che limitando piazzati e luci di taglio ci propone un'interpretazione che ammicca all'arte circense, dove occhio di bue e luci colorate si inseriscono perfettamente nella composizione scenografica, imperlando di colore il vasto cielo del palco con la loro delicata semplicità: ne risulta una danza collettiva di scene luci e attori, un meccanismo apparentemente semplice – ma studiatissimo nei movimenti – che accende la fantasia dello spettatore e fa volare l'immaginazione, intrattenendolo anche nei recitativi più statici.

Veniamo al canto. Innanzitutto cantanti giovani e, almeno all'apparenza, coetanei, perfettamente affiatati e a loro agio con i personaggi che il libretto prevede: Omar Montanari, Leporello, è un incredibile Figaro a spasso tra le note, un autentico factotum della scena con grandissime capacità mimiche e una voce calda e dall'articolazione cristallina; Don Giovanni, interpretato dal baritono Alessandro Luongo, sa tenere il personaggio con destrezza passando dall'agilità del registro comico, aiutato dalla perfetta spalla di Montanari, al tono sontuoso e autorevole, all'incredibile dolcezza dell'aria Deh, vieni alla finestra, cantata con un pianissimo iniziale davvero commovente.

Il variopinto panorama delle voci femminili presenti nel Don Giovanni ci dà la conferma di come l'assoluto genio di Mozart abbia affidato ai diversi registri la descrizione di un piccolo universo di caratteri e personalità, pienamente abbracciato dalla scelta del cast in questo allestimento. Al pari delle luci sospese che brillano sul palco, ritroviamo nelle voci femminili le sfumature emotive evocate dai colori primari: c'è il viola profondo di Ruth Iniesta, Donna Anna, voce morbida, tenebrosa e aggraziata; il rosso fuoco di Raffealla Lupinacci, Donna Elvira, davvero abile nei complicatissimi fraseggi voluti dal suo ruolo; l'arancione-giallo della guizzante Erika Tanaka nei panni di Zerlina, eccezionale nel ruolo della villanella ammiccante.

Non da meno i ruoli secondari maschili: un roboante Stefan Kocan nei panni di un Commendatore stilizzato e mai sopra le righe; un Don Ottavio, interpretato da Davide Giusti, di cui va sottolineata la bellissima morbidezza vocale e una tecnica che non teme i difficili gorgheggi del secondo atto; Masetto, Roberto Lorenzi, possente nel fisico e nella voce, perfetto nell'aspetto e nel canto.

Le impressioni che proponiamo in questa breve recensione potrebbero continuare per molte, moltissime righe. Il motivo sta nel fatto che quello che il regista ci urla qui è la volontà di andarsi a prendere quegli spazi liberi, nascosti tra le pieghe polverose di trama e libretto, troppo spesso inesplorate e dimenticate; quello che uno spettatore vede, di conseguenza, è innovazione, fantasia, empatia, elementi di una risposta parziale ad una questione annosa: come si rinnova la lirica?

Noi, la nostra risposta l'abbiamo portata a casa, ma forse è troppo delicata per essere scritta; come questo bellissimo Don Giovanni, che ha la freschezza di un fiore, l'odore dolce, delicato e fuggevole della primavera e della giovinezza.

Giovanni Giacomelli

26/12/2018

Le foto del servizio sono di Rocco Casaluci.