Il Flauto magico di Mozart impaginato come un film muto
Trionfa lo spettacolo della Komische Oper allestito all'Opera di Roma
Le ragioni del successo che arride all'allestimento del mozartiano Zauberflöte nella declinazione registica di Barrie Kosky e Suzanne Andrade, sin dalla sua prima apparizione alla Komische Oper di Berlino, deriva dalla sua adesione totale alla peculiare drammaturgia dell'opera, debitrice nei confronti del genere della pantomima. Il libretto confezionato da Schikaneder trascende i ristretti limiti della simbologia massonica, peraltro ben presente, in una pluralità di significati che alimenta in maniera illimitata il processo esegetico. Die Zauberflöte mescola i percorsi apparentemente diversi della farsa popolare viennese con quelli più alti della parabola metafisica dando vita a un'opera che, per usare le parole di Adorno, intreccia in una maniera mai così profonda i concetti di amore e verità. La pluralità semantica del capolavoro mozartiano richiederebbe spazi enormi di trattazione. Basti dire che il cammino iniziatico dei protagonisti rappresenta un processo di crescita, un tentativo di conquistare la propria identità, una presa di coscienza della natura umana, delle sue componenti fallaci quanto di quelle superiori, che sole portano alla realizzazione di una società rinnovata. Il miracolo consiste nel rendere tali altissime istanze fruibili al grande pubblico, mediante una vicenda, e soprattutto una musica, dalla forza comunicativa illimitata. L'allestimento ripreso dal Teatro dell'Opera di Roma conferma tutta la sua vitalità. Lo Zauberflöte viene impaginato come un film muto, nel quale i dialoghi del Singspiel sono sostituiti da rapide didascalie accompagnate da brevi estratti dallo sterminato repertorio del genio di Salisburgo. Naturalmente le proporzioni fra musica e parola vengono alterate in maniera significativa, ma questo è un vantaggio quando si presenta il lavoro fuori dai territori di lingua tedesca (e comunque non dobbiamo dimenticare che lo spettacolo nasce proprio in Germania, dove questa formula ha mostrato la sua forza sin da subito). Privata in gran parte della simbologia misterico-massonica, la messa in scena risulta immediatamente fruibile per un pubblico moderno. Se i riferimenti iconografici più immediati sono quelli del cinema muto degli anni venti, con Monostatos che ricorda il Nosferatu di Murnau, Pamina abbigliata alla maniera dell'attrice Louise Brooks e Papageno tale e quale a Buster Keaton, a ben guardare l'operazione, ideata con l'ausilio del gruppo 1927, mostra orizzonti ben più ampi. Ad esempio Papageno, nella scena del tentato suicidio, accende la miccia di un'enorme bomba che esplode in una sorta di fumetto che ricorda la pop art statunitense. Papageno e Papagena emergono dal fumo con gli abiti lacerati e i volti anneriti, come nelle comiche di Laurel e Hardy.
Detto ciò, occorre sottolineare la mirabile coerenza dello spettacolo, il suo ritmo infallibile. Tutto viene costruito dalla perfetta sincronia fra proiezioni e gestualità reale, dalla capacità di evocare il dinamismo pur nell'assoluta immobilità delle figure umane, come quando Papageno e Pamina paiono correre e saltare sui tetti che scorrono dietro di loro. I cantanti attori si muovono all'interno di scenografie immaginate, una lanterna magica che di volta in volta svela sorprendenti orizzonti, una sorta di film animato da personaggi in carne ed ossa. Aperture girevoli consentono la comparsa e la scomparsa dei protagonisti, mentre le proiezioni sul fondale bianco creano un mondo illusorio e magnifico. Pamina appare ad esempio in bilico su un precipizio, mentre scheletriche furie la minacciano; Tamino discende in un avveniristico ascensore le profondità della terra; un demone fiammeggiante minaccia i due amanti durante la prova del fuoco, e via dicendo. Fra le trovate più spassose quella in cui un affamato Papageno vede svanire sotto i propri occhi innumerevoli polli arrostiti; prima dell'aria Ein Mädchen oder Weibchen questi beve da un enorme cocktail un liquido rosa, che poi per magia si trasferisce nell'immancabile gatto che accompagna tutta la narrazione. Una presenza che potrebbe evocare i demoniaci felini presenti nella narrativa di Bulgakov e di Sologub, anche se in realtà a fluttuare nell'aria appaiono spassosi elefanti. Monostatos minaccia Pamina tenendo al guinzaglio tre cani infernali, foreste di alberi antropomorfi delineano paesaggi inquietanti in una visionarietà orrorifica e sepolcrale che ricorda l'immaginario di Tim Burton. La Regina della Notte appare invece come un enorme ragno nero dalla testa di alieno, esplicitando forse troppo presto l'altrimenti ambigua dialettica fra luce e ombra, la confusione dei valori che solo un arduo percorso interiore potrà chiarire.
Perfettamente godibile dunque lo spettacolo, più debole la parte musicale. Henrik Nánási dirige con metronimica precisione, considerando le esigenze sincroniche della narrazione, ma anche con una certa genericità espressiva. Nel cast i migliori sono Amanda Forsythe, una Pamina limpida e toccante, e il Sarastro autorevole e profondo di Antonio Di Matteo. Juan Francisco Gatell (Tamino) è, come di consueto, interprete sensibile e affidabile, anche se manca un poco di squillo. Alessio Arduini è un Papageno nel complesso apprezzabile ma poco duttile nel fraseggio, accompagnato dalla Papagena di Julia Giebel, convincente nella sua breve apparizione. Eccellente l'oratore di Andrii Ganchuk, dal meritorio progetto “Fabbrica” dell'istituzione lirica romana. Olga Pudova è una Regina della Notte molto brava nei passaggi di coloratura, ma dal volume esiguo e non sempre adeguatamente tagliente. Pessimo il Monostatos di Marcello Nardis. Bravi infine i due armigeri e le tre dame, eccellenti i genietti. Teatro al completo e grande successo di pubblico.
Riccardo Cenci
15/10/2018
Le foto del servizio sono di Yasuko Kageyama.
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