RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Muti per un Don Giovanni … quasi muto

Quando Brahms, nel 1890, ascoltò a Budapest il Don Giovanni, volle incontrare il direttore per complimentarsi con lui, asserendo di non averne ascoltato mai uno così ben fatto. Il direttore era il trentenne Mahler…

Le aspettative per il Don Giovanni dato al Teatro Regio di Torino sono state personalmente quelle di Brahms a Budapest; parafrasando Waldstein, quelle di ricevere lo spirito di Mozart dalle mani di Muti. Perché è proprio Riccardo Muti ad aver diretto il titolo teatrale mozartiano forse più iconico e innovativo, salutato dal successo fin dalla sua première, al Teatro degli Stati di Praga il 29 ottobre 1787. Per il Regio stesso è stato un vero e proprio evento – salutato alla prima con la presenza in sala, tra gli altri, del sindaco di Torino, Stefano Lo Russo, e del direttore Sebastian F. Schwarz, in carica fino a fine anno –, non solo per l'ospite illustre, ma perché questa produzione, o meglio co-produzione, insieme al Teatro Massimo di Palermo, strategicamente posta quasi come fosse a inizio della vecchia calendarizzazione della stagione (che iniziava, in era pre-pandemia, il 10 ottobre, compleanno di Giuseppe Verdi), novembre 2022, è in qualche modo una ripartenza, dopo una chiusura di diversi mesi per lavori di rinnovo e messa in sicurezza del teatro. Ma, a fronte di aspettative così alte, la recita del 22/11/2022, qui in esame, non ha suscitato consensi unanimi, attestandosi nell'insieme su un livello buono, non eccelso.

Partiamo dall'elemento di spicco della serata, la presenza di Muti. È comprensibile che il tutto esaurito si sia registrato grazie a lui, per l'innegabile valore artistico, per il fatto di assistere, piaccia o non piaccia, a un monumento della direzione d'orchestra italiana; la presenza di giovani e giovanissimi, comprese alcune scolaresche, è sicuramente di buon auspicio, ma resta il dubbio che il pubblico si sia diviso tra chi era lì per Muti, chi per il Don Giovanni e chi per il Don Giovanni diretto da Muti. Evidentissimo e di gran pregio lo studio certosino della partitura, che si traduce nella messa in luce dei numerosi preziosismi di strumentazione, sovente non così evidenziati in conduzioni più dozzinali: come non apprezzare il risalto dato al violoncello obbligato in Batti, batti – il violoncello, la voce della seduzione, per Mozart – o il gioco di fiati nell'”aria del catalogo”, le terzine agli archi attentamente staccate durante l'agonia del Commendatore, una suggestione di attesa come il tic tac di un orologio che segna gli ultimi momenti della sua vita, o ancora la morbidezza di alcune transizioni dal recitativo al pezzo solistico – lievissimo il sostegno con cui parte Là ci darem la mano o Dalla sua pace … non si finirebbe di enumerarle, queste finezze. Una parola va spesa poi per lo spirito infuso alla direzione: tempi nel complesso comodi – si ascolti Klemperer, per averne un'idea –, lontani ormai da quelli più vitalistici che lo stesso Muti imprimeva in letture passate (Scala, 1987) – con alcune eccezioni: Ah, chi mi dice mai incomprensibilmente velocizzata – ma che dimostrano una maturazione ulteriore: il valore aggiunto è un'accresciuta drammatizzazione, a cominciare dall'Ouverture (e basterebbero i primi accordi, finalmente scanditi, “teatrali”, non quasi fusi in uno: cosa molto frequente), e il raggiungimento di una dimensione metafisica, che, scevra da frenesie isteriche, conserva l'apollinea leggerezza mozartiana di tante pagine, pur indagando, laddove necessario, la dimensione più psicologica e problematica dell'opera (Don Ottavio, son morta… Or sai chi l'onore; l'ingresso delle «signore maschere», i due finali…). Quando poi, al servizio di tutto ciò, vi è un'orchestra di comprovato livello come quella del Regio, l'effetto sorprendente no-n è tardi a conseguir. Valga lo stesso per il Coro, preparato da Andrea Secchi, collocato in buca accanto agli orchestrali per scelta registica, su cui torneremo (buca tra l'altro rialzata per favorire il suono). Alessandro Benigni accompagna i recitativi al fortepiano con garbo e inventiva, infiocchettando le cadenze di galanti abbellimenti. Stenta però a emergere una linea di pensiero unitaria: presi singolarmente, i singoli pezzi (l'edizione è pressoché integrale, riferendosi alla versione praghese con le aggiunte di quella viennese, pochissimi i tagli) sono superlativi: l'insieme invece difetta a fondersi, dando l'idea di una resa un poco dispersiva.

Meno riuscita la prova dei solisti. Luca Micheletti è un Don Giovanni sicuro, spavaldo, arrogante, perfino un po' antipatico nella sua altezzosa sicumera, come è giusto che sia. Dispone di uno strumento caldo, corposo, dotato di buon volume, ma attento ad essere dosato all'occorrenza – l'incantevole Deh, vieni alla finestra a mezza voce: siamo pur sempre sotto i balconi di una donna, probabilmente è addormentata: va svegliata con dolcezza, e se non ci sa fare Don Giovanni… –. Peccato che, a inizio secondo atto, sia stato annunciato che di lì in avanti non avrebbe più cantato in voce, limitandosi a recitare o a cantare al minimo del dispendio energetico. Improvvisa indisposizione, per fortuna accolta da un applauso d'incoraggiamento. Degna spalla è il Leporello di Alessandro Luongo, sebbene di minor proiezione vocale – purtroppo diverse volte coperto da un'orchestra che, così diretta, è sempre a favore dei cantanti e mai contro – ma convincente grazie a fraseggio curato e camaleontica capacità di adattare il canto alla sua posizione sempre in divenire. Promosso a pieni voti Giovanni Sala, un Don Ottavio cavalleresco, non smidollato come talvolta si rappresenta – cicisbeo di Donna Anna e niente più –, idilliaco e flessuoso nella sua morbidissima e oltremodo ben fatta Dalla sua pace, più incline a incarnare un ruolo astratto che un personaggio: qui l'aggettivo “metafisico” usato prima trova giustificazione: incarnazione astratta – e quindi assoluta – di un “tipo” valido per tutti, alla stregua di tante figure astratte e idealizzate delle opere barocche. Corretto il Masetto di Leon Košavic, grintoso tanto sulla scena quanto vocalmente e in grado di dar bene corpo e voce al ruspante contadinotto voluto da Mozart-Da Ponte. Profondo, misurato ma non funereo e ancor meno spaventoso il Commendatore di Riccardo Zanellato, anche qui “metafisico” nel delineare un ruolo, più che un personaggio, complice anche la regia (leggasi oltre).

Altrettanto variegato il versante femminile. Donna Anna è Jacquelyn Wagner, che, dopo un inizio non brillante (note crescenti, un poco stentate, acidità di timbro), si riprende, delineando però il suo personaggio con algida impersonalità: tecnicamente quasi inappuntabile, un po' più di coinvolgimento sarebbe stato gradito, a meno di pensare a una scelta voluta per rappresentare anche qui il “tipo”. Coinvolgimento ben profuso invece da Mariangela Sicilia, voce rotonda, venata qua e là di freddezza, ma in grado sicuramente di inquadrare una Donna Elvira volitiva e battagliera, dimidiata tra amore e rancore, pietà, desiderio di vendetta, volontà di redenzione o istinto di crocerossina – insomma il personaggio femminile più prismatico e più complesso, quello che meno si presta ad essere astratto nel “tipo” e quindi il più interessante, il più umano e verosimile, nonché proprio per questo il più difficile da interpretare. Plauso quindi a Sicilia per la capacità di portare in scena queste sfaccettature e di renderle credibili. Piacevole, fresca e giovanile la Zerlina di Francesca Di Sauro, che gioca fra ingenuità e coscienza della sua sensualità, sfumata e insinuante sia nel momento tentatore della seduzione, sia nella maliziosa e calcolata sottomissione a Masetto, nella già citata Batti, batti ma ancor più in Vedrai, carino.

Il côté registico, affidato a Chiara Muti, con scene di Alessandro Camera, costumi di Andrea Lagattolla e luci di Vincent Longuemare, ha voluto aggiungere all'opera una simbologia non richiesta e di cui francamente non si sentiva la necessità, e a poco è valso lo sfoggio di citazioni, da Rilke a De Musset a Rostand, nella nota di regia del programma di sala (invero più pamphlet che monografia) volto a spiegarlo (quando una regia deve essere spiegata, è perché non è abbastanza comunicativa di suo). Presente dall'inizio alla fine è la facciata di un palazzo nobiliare abbattuta, leggermente inclinata verso il pubblico e dotata di porte/botole da cui i personaggi entrano ed escono, cui si contrappone in filigrana la sfilata di finestre in verticale: il Teatro Olimpico di Vicenza in rovina, per capirci. Al centro, una piattaforma circolare girevole. Il tutto color grigio cenere, incupito da luci molto spesso noir. L'eccezione è il nido intrecciato dentro cui Zerlina e Masetto amoreggiano, coperti da un lenzuolo che allusivamente viene agitato (Sandra e Raimondo…), adorno di un centrino gigante. Chiaro che i contadini invitati alle nozze (il coro) debbano restare a rispettosa distanza, nella buca dell'orchestra… Su questo scenario si muovono i personaggi, o meglio: le marionette: ché, al loro ingresso in scena, viene calato un appendiabiti col loro costume, che i cantanti indossano («…e non voglio più servir» è cantato da un Leporello su legnose movenze da automa) e di cui si spogliano, simmetricamente, a fine opera nella scena della morale. In questa concezione, tutti i personaggi sono marionette mosse da Don Giovanni, «satelliti in cerca d'un pianeta attorno al quale orbitare, e quel pianeta è Don Giovanni» (dalle note di regia), è lui a orchestrare tutto, e quando lui muore, tutto va in frantumi, compresa la sua dimora, donde del palazzo le torri abbattute. Eppure Mozart lo ha fatto capire bene: è Don Giovanni a cercare un'identità, non il contrario. Lui non ha praticamente un'aria solistica, canta sempre con qualcuno, spesso rubandone o imitandone le linee vocali. È lui il satellite. Continuamente in movimento, bulimico di esperienze, affetto ante litteram da una forma di FOMO (Fear Of Missing Out, paura di perdersi qualcosa), salta qua e là senza fermarsi mai a riflettere: non è lui a muovere tutti, in fin dei conti lui è mosso dagli altri, e si conforma alle situazioni che incontra. La lettura della Muti è all'opposto. Risulta quindi debole l'idea di un Don Giovanni-Re Sole incoronato, come sul trono del mondo. Più convenzionale l'idea di far sfilare le conquiste che Leporello elenca durante l'atto del catalogo, comprese le «vecchie» artritiche e incurvate, impersonate da comparse. Più interessante l'idea di un Commendatore/non Commendatore, che personifica, più che il padre di Donna Anna, la parte buona della coscienza di Don Giovanni, che quest'ultimo, con la sua dissolutezza, uccide in se stesso, condannandosi. Da qui il motivo per cui il Commendatore che non duella ed esce di scena (il duello sarebbe dentro Don Giovanni), per ricomparire non come statua alla fine, ma come grande silhouette sullo sfondo, Zanellato in buca, sorta di coscienza giudicante. In ogni caso una sovrascrittura della drammaturgia dapontiana superflua. Peccato. Santa Cecilia avrebbe potuto essere onorata meglio.

Christian Speranza

28/11/2022

Le foto del servizio sono di Andrea Macchia.