L'infinito tra le note
È l'ultima pubblicazione di Riccardo Muti, L'infinito tra le note. Il mio viaggio nella musica, a cura di Susanna Venturi, edito dalla Solferino nel giugno 2019, in seconda edizione. Bacchetta di grande rilievo quella del maestro napoletano, che il 21 giugno 2020, in occasione della Giornata della Musica, ha avviato la 31ma edizione del Ravenna Festival con l'Orchestra Cherubini, e con la stessa ha partecipato, dal 2007 in poi, al progetto di riscoperta e valorizzazione della scuola napoletana, messo in atto per cinque anni con Jurgen Flimm, allora direttore artistico del Festival di Salisburgo. Già in passato direttore del Teatro alla Scala di Milano, Muti collabora dal 1971 con i Wiener Philharmoniker, organico del quale è Membro Onorario dal 2011 e che dirigerà al concerto di Capodanno nel 2021; e vanta la guida prestigiosa di orchestre di prim'ordine, quali la Philadelphia Orchestra (1980-1992), l'Orchestra sinfonica di Chicago dal 2010, nonché la collaborazione con la Filarmonica di Berlino e con la Filarmonica di Vienna, quest'ultima da ben 50 anni. Suddiviso in otto capitoli, con dedica iniziale all'esimio maestro di pianoforte Vincenzo Vitale, il testo focalizza l'attenzione sul ruolo del direttore d'orchestra, con l'incisiva citazione di Gabriele D'Annunzio, in incipit, che paragona ad uno scettro la bacchetta del mitico Toscanini, quale verga leggera atta a smuovere i grandi flutti dell'orchestra e i torrenti dell'armonia, sedandone le irruenze: a fronte di un “Capo” così eclatante l'autore puntualizza che l'essenza di tale figura non va identificata con l'esteriorità del gesto più o meno accentuata, posta in evidenza dalla attuale cultura dell'immagine, ma nella sintesi che solo un musicista vero può attuare, con studi di composizione e di pianoforte, necessari per l'analisi della partitura e dei brani sui quali si lavorerà insieme ai cantanti della lirica, nonché la conoscenza degli strumenti ad arco. Ci si prepara così a un serio lavoro di concertazione, che lungi dalle didascalie con freccette dell'editoria americana, trae linfa dalla preziosa memoria dei grandi maestri che Muti ha visto dirigere alla Scala, quali Antonino Votto (allievo di Toscanini) che gli trasmesso la compostezza sul podio, Herbert von Karajan e Gianandrea Gavazzeni, oltre ad Ugo Rapalo (docente del conservatorio S. Pietro a Majella di Napoli) e Francesco Molinari Pradelli “insuperabile interprete verdiano”.
L'autore, soffermandosi sul delicato comporsi del personaggio operistico, frutto sinergico del direttore e del regista nell'ottica drammatico-musicale della partitura e del libretto verso un prodotto finale che rispecchi la convergenza di musica e scena, punta il dito contro le maggiori attenzioni di cui sono oggetto, in Italia, la regìa e l'allestimento di nuove produzioni (su cui si concentra anche la critica), a discapito dell'approfondimento musicale: a tale proposito invece è prioritario far comprendere ai cantanti il senso delle parole da interpretare e della musica che si lega strettamente al testo come nelle partiture di Verdi (di cui cita I masnadieri, quale prima opera diretta nel 1969 al Maggio Musicale Fiorentino, da uno spettacolo del 1963 di Erwin Piscator). Il direttore, lavorando con l'orchestra e sedendosi al pianoforte farà acquisire la teatralità del suono che si addentra nel testo, guidando i cantanti ad articolare la parola nella sua densità di significato: operazione certosina (non certo possibile nel susseguirsi consumistico di direttori del sistema americano, con supporto di aiuto-registi) che Muti esegue alle prese con orchestre di giovani musicisti (ancora inconsapevoli della tecnica vocale del cantante) come l'Accademia dell'opera italiana fondata da lui stesso nel 2015, per far comprendere quanto l'organico orchestrale debba muoversi su una linea musicale condivisa tra direttore e cantante (in virtù del fraseggio musicale e fisiologico), pur con un margine di flessibilità, ovvero di libertà esecutiva. E tenendo conto sempre che dall'insieme armonico dei singoli musicisti dipende ogni esecuzione, tant'è che Muti definisce eroica la figura del professore d'orchestra – come lo si chiama in Italia – per l'abnegazione e la pazienza nello studio costante di chi “sacrifica la propria individualità di interprete in una professione apparentemente anonima...” lasciandosi magari alle spalle il sogno di affermarsi come solista. E' fondamentale trasmettere una formazione etica- dice Muti- come nell'approccio all'Orchestra Giovanile “Luigi Cherubini, nata per sua iniziativa nel 2004, il cui nome ci rivela quanto il compositore sia stimato (già ben sette Messe sono state dirette dall'autore accanto ad altre pagine, oltre all'intento di traslare i resti dell'operista dal cimitero parigino di Père-Lachaise alla basilica di Santa Croce a Firenze, sua città natale). L'orchestra è il più alto esempio di convivenza civile che, in nome del rispetto reciproco tra gli orchestrali, smussa le prevaricazioni e i protagonismi con l'obiettivo di un'armonia collettiva.
Ed ecco lo spazio alla scuola napoletana, della quale il maestro cita le schiere di musicisti e cantanti formatisi nei quattro conservatori della città partenopea: per citarne alcuni tra i primi, Pergolesi, Jommelli, Traetta, Scarlatti, Porpora e Leonardo Leo (il cui Miserere per due cori fu ascoltato da un Wagner in estasi nel 1880, sulla sedia rossa conservata nel Museo del conservatorio di S. Pietro a Majella); mentre fra i maestri dell'arte vocale Farinelli, Caffarelli e Gizziello. Un occhio di riguardo va al Teatro San Carlo e a Napoli, elogiati da Charles Burney nel suo Viaggio in Italia, l'uno per la “straordinaria magnificenza” di scene, costumi, e ritenuto superiore al teatro d'opera di Parigi, l'altra capace di offrire “tutto quel che la musica può offrire in Italia, quanto alla qualità e alla raffinatezza”.
Due sono i grandi musicisti divenuti oggetto della ricerca interpretativa di Muti, ovvero Wolfgang Amadeus Mozart e Giuseppe Verdi, ai quali l'autore dedica un capitolo ciascuno. Il maestro di Salisburgo, del quale ha diretto “Le nozze di Figaro” prima a Firenze nel 1979 e poi alla Scala due anni dopo, con le rispettive regìe dei grandi Antoine Vitez e Giorgio Strehler, lascia di stucco l'interprete per la bellezza incontaminata e la purezza del flusso creativo che scaturisce come da una sorgente.Come interpretarlo dunque? Seguendo i consigli di Toscanini, nel cogliere il fraseggio e il senso delle dinamiche con la maggiore naturalezza possibile, rifuggendo dall' “oggettivismo” di esecuzioni filologicamente corrette, e scovando piuttosto la sua magica versatilità sinfonico-teatrale. Muti parla di una luce abbagliante che avvince in Mozart, a confronto con “la potenza del titano, dell'uomo ruggente” di Beethoven, che poi si erge a dimensioni metafisiche, come nella Missa Solemnis, con l'ineffabile che si cela tra una nota e l'altra: ed è proprio qui, nello stretto legato tra i suoni, che il grande Amadeus ravvisava l'infinito. Arduo quanto mai dunque, per il direttore d'orchestra, esprimere ciò che non è segnato in partitura pur rispettando quello che vi è scritto!
Non da meno Muti si sofferma sullo spessore di Verdi, sulla teatralità della sua musica, che, proiettando il compositore oltre la dimensione belcantistica, fa sì che l'orchestra sia funzionale al testo, quindi al dramma: ed ecco la statura di personaggi quali Nabucco o Abigaille che recano l'impronta shakespeariana prima ancora di giungere a Shakespeare
– fa rilevare il maestro. Quest'ultimo parla anche dei tanti abusi denunciati da Verdi su esibizioni “circensi” con acrobazie vocali non previste dall'autore, come il “do della pira” del Trovatore, atte a mandare in visibilio il pubblico molto più che l'effettiva grandezza drammatico-musicale dell'opera. Lo stesso Muti racconta di aver derogato qualche volta dalla continuità drammatica per accontentare il pubblico, vedasi col mi bemolle sovracuto del soprano Tiziana Fabbricini, a chiusura della cavatina “Sempre libera degg'ioalla fine del primo atto di Traviata, nel 1990, alla Scala, dopo oltre un quarto di secolo dall'ultima rappresentazione del 1955, con la mitica Maria Callas. Un Verdi sempre profondamente umano, dal messaggio eterno e saggio che si compendia nel Falstaff, “generoso” come Mozart, in quanto recepito da tutti con immediatezza, e che ben si rispecchia nella definizione di D'Annunzio “ Pianse e amò per tutti”.
Infine l'attenzione di Muti è volta a tutti quei compositori che durante il periodo di fioritura del melodramma hanno tenuto viva la fiammella del sinfonismo e della musica strumentale italiana, come Ferruccio Busoni, Leone Sinigaglia, Marco Enrico Bossi e Giuseppe Martucci, ai quali Gustav Mahler ha dedicato il suo ultimo concerto alla Carnegie Hall nel 1911, che Muti ha ripreso nel 2011 per commemorarne il centenario della morte con la Chicago Symphony Orchestra. Compositori italiani definiti apostoli del sinfonismo da Massimo Mila, ma purtroppo dimenticati dall'editoria e dal pubblico e dei quali, come anche dei veristi, Muti sottolinea quella cantabilità inconfondibile, una solarità solo italiana legata anche alla posizione della nostra penisola e che promana altresì dalla pittura del Quattro e del Cinquecento.
Nell'ultimo capitolo il maestro affronta il rapporto tra arte e società, affermando che un vero interprete deve aprirsi a tutto quello che nasce e si sviluppa intorno a lui, traendo dal presente la linfa necessaria per il futuro, con un linguaggio duttile che rispecchi le nuove esigenze culturali e i fremiti spirituali della società contemporanea. Ed ecco l'interesse di Muti non solo verso il Novecento storico di Shostakovic, Scriabin o Hindemith, ma anche nei confronti di opere innovative come Night Ferry di Anna Clyne, o The B-Sides Five Pieces for Orchestra and Electronica di Mason Bates, che approda a inediti mondi sonori a fronte del consueto e tradizionale uso dell'orchestra.
Il maestro, che ha trattato i contemporanei alla stregua dei classici, affida ai giovani il delicato compito di preservare l'altissimo valore etico di un illustre passato musicale, con le dovute attenzioni al presente, riprendendo quindi in mano le redini della nostra cultura, della patria culla dell'opera in musica, degli Stradivari e dei Guarnieri del Gesù, perchè “un mondo senza Italia non è neppure immaginabile”.
Anna Rita Fontana
5/7/2020
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