RECENSIONI
-

_ HOMEPAGE_ | _CHI_SIAMO_ | _LIRICA_ | _PROSA_ | _RECENSIONI_| CONCERTI | BALLETTI_|_LINKS_| CONTATTI

direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


Empia tal fiamma or parmi !

Le produzioni riminesi di Capodanno sono una realtà consolidata da oltre un decennio, che abbiamo avuto ripetute occasioni di apprezzare fin dalle prime edizioni, proposte nell'auditorium della Fiera, luogo che pur non dato agli spettacoli lirici, in qualche modo si adattava all'uso, e “appoggiate” negli ultimi anni in altri luoghi (in attesa di vederle finalmente nel teatro del capoluogo romagnolo). Per la prima volta, il Coro Galli ha messo in scena l'opera di capodanno al 105 Stadium, un luogo magnifico e attrezzato, con capienza fino a 7000 (settemila) persone sedute, circa un quarto in meno dell'arena di Verona, giusto per rendersi conto delle dimensioni. Il San Carlo di Napoli ha una capienza di oltre 2250 posti a sedere, risultando il più capiente teatro italiano. Il Teatro alla Scala supera di poco i 2000, come pure il Carlo Felice di Genova; e via diminuendo. Questo sia detto non per fare una graduatoria fine a se stessa, ma per visualizzare il luogo in cui è stato rappresentato questo Nabucco, circostanza per niente secondaria rispetto all'esito dello spettacolo, di cui meglio si dirà poi.

La genesi della composizione del Nabucco si perde nella leggenda delle biografie verdiane: il compositore, neanche trentenne ma già provato dalle tragedie della vita (aveva, come sappiamo, nel giro di pochi anni perso moglie amatissima e figlioletti e la sua ultima opera Un giorno di regno era andata malissimo, anche se non per sua colpa) cercava di liberarsi dall'impegno che aveva preso con Merelli di comporre una nuova opera buffa. Si vuole che, colpito dai versi della Bibbia, volume sempre presente sulla sua scrivania, che casualmente quel giorno va ad aprirsi sulle pagine del profeta Daniele, Verdi venga folgorato dalle tristi vicende di Israele tenuto in cattività dal terribile re assiro Nabucodonosor, e così componga l'opera che lo porterà in un batter d'ali, a divenire il vate del risorgimento italiano. Smitizzando, possiamo dire che Verdi aveva un impegno da rispettare, e che onorò, seguito dal grandissimo successo che giustamente gli arrise. Sappiamo anche, che in Verdi non albergava nessuna intenzione di cavalcare lo spirito risorgimentale (pur frequentando il salotto della Maffei) ma che fu il pubblico a interpretare così il Va' pensiero . Ovviamente, di questo il Verdi trae grande e gradito beneficio, come dimostrerà abilmente nelle opere immediatamente seguenti (pensiamo al coro “ O Signore dal tetto natio ”, messo nei Lombardi, appena un anno dopo, e al “ Si ridesti il leon di Castiglia ”, nell'Ernani dell'anno successivo).

Nabucco, pur vantando un sacrosanto successo dal 1842 in qua, è un'opera che si distanzia parecchio dai “tipi” del melodramma italiano: la primadonna, Abigaille, non soffre per un amore che non riesce a realizzare, al contrario, è una terribile virago, che non esita a detronizzare il re (ritenuto padre, ma non tale) e a mandare a morte la sorella (putativa), dimostrando ben scarso dispiacere per il non ricambiato amore del tenore. A Rimini, Abigaille è stata interpretata da una Dimitra Theodossiou in gran forma, nonostante il sofferto naufragio di neppure una settimana prima: ottima prova, in uno dei ruoli più adatti alla sua vocalità drammatica e non a caso migliori del suo repertorio.

Il baritono, Nabucco, è protagonista (e non antagonista), ma a metà dell'opera impazzisce e sembra destinato ad una precoce sparizione dalla scena, che però non avviene ed anzi, rinsavisce grazie al sincero pentimento. Grande prova, oggi, di Carlo Guelfi, che dall'alto della sua esperienza, può aggiungere un'ulteriore stella alle sue innumerevoli ottime performances: il suo Dio di Giuda era più che meritevole del bis.

Il tenore, Ismaele (interpretato da un efficace Paolo Antognetti) anziché ardere d'amore per il soprano, è innamorato del mezzosoprano, Fenena (Patrizia Patelmo, anche lei molto bene); né è protagonista maschile, perché esaurito il suo ruolo di amoroso, di fatto, si eclissa. Abbiamo, invece, un importantissimo basso, Zaccaria (Ivaylo Dzhurov, solenne e grave, anche il suo Vieni o Levita meritava di essere bissato), condottiero di un triplice coro e antagonista del baritono; alcuni comprimari (il gran sacerdote di Belo, Abdallo e Anna, rispettivamente Antonio di Matteo, Roberto Carli ed Elettra Benfatto) e, soprattutto, più cori, protagonisti assoluti e indiscussi di quest'opera che come poche altre può definirsi “di popolo”. Peccato che tanta energia e forza non siano state supportate da una parimenti energica direzione: Nayden Todorov, alla testa dell'orchestra del Teatro dell'Opera di Rousse, ha impresso un ritmo discontinuo, quando non a tratti troppo lento.

Grandissima prova del il coro Amintore Galli di Rimini, diretto da Matteo Salvemini, che riesce con efficacia e misura a reggere tutte le parti richieste: gli ebrei, i leviti, i guerrieri assiri, le vergini. Un plauso speciale merita questo coro, in scena stavolta con ben 74 elementi, che da tempo ascoltiamo con grande apprezzamento, tanto più perché coro non professionale. La passione, la perizia e la cura di un coro nato da amatori merita, a mio parere, tanto maggior elogio di cori professionali, la cui bravura si reputa sempre un po' dovuta: le numerose collaborazioni con importantissimi nomi del teatro lirico internazionale sono costante dimostrazione del suo merito. Incomprensibile, al riguardo, il mancato e atteso (e richiesto) bis del Va' pensiero.

Dei protagonisti non si può che dir bene: cast di altissimo livello, equilibrato e omogeneo, circostanza quanto mai opportuna per un'opera corale come il Nabucco. V'è ben poco da aggiungere alla già segnalate ottime prove dei singoli, se non qualche modestissima sbavatura: in ogni caso piccolezze, delle quali non c'è motivo di dolersi rispetto all'esito complessivo della prova e, soprattutto, all'ottima riuscita dei pezzi forti che il pubblico si attendeva.

Molto gradevole la regia di Enrico Stinchelli, semplice e assai efficace: una gradinata/ziggurath al centro, arricchita da pochi elementi (di grande effetto l'idolo Baal, dio assiro metà antropomorfo e metà serpente, che sarà platealmente infranto al rinsavire di Nabucco, davvero gran bella scena) e corredata da immagini proiettate sul fondo, a dare un giusto movimento a un'opera che corre sempre il rischio di apparire statica. Non abbiamo compreso la necessità di far cantare diverse parti del primo e del secondo atto dietro una cortina semitrasparente (neppure la necessità dei tuoni e fulmini durante la sinfonia), ma non ce ne faremo un cruccio, essendo nella regia largamente prevalenti i pregi rispetto ai difetti.

Il neo più grave, come si accennava all'inizio, riguarda invece la location. La scelta di allestire un'opera lirica al 105 Stadium (opera, attenzione, allestita con criteri tradizionali, non con sperimentazioni “originali”) ha restituito ahimè tutti i difetti che si potevano prevedere e temere prima della messa in scena. L'opera va rappresentata a teatro per ragioni funzionali, non per capriccio di ottusi e tradizionalisti melomani. Inspiegabili i volumi diseguali degli strumenti, ma su questo e sull'esito d'insieme il problema non è, certamente, da imputare agli esecutori, meno che mai alla direzione: amplificare un'orchestra è impresa quanto mai ardimentosa, soprattutto in un ambiente non destinato ad esecuzioni acustiche. Il luogo, si ribadisce, magnifico, eccellente per eventi sportivi e concerti rock, non è per niente adatto all'opera (tanto è vero che non ci risultano altre opere qui rappresentate) e obbliga la produzione ad affidarsi ad un service di amplificazione che, per quanto abile e curato, non è nato per servire l'opera lirica.

Una sala così mastodontica restituisce un suono diverso, fatalmente, in prova (a sala vuota) e in scena (a sala semi piena, perché tutta la gradinata centrale e il secondo ordine di gradinate erano chiuse al pubblico), per cui, per quanto si possano prevedere le varianti acustiche dovute alla presenza di così tanti spettatori, i fonici, realisticamente e incolpevolmente non avezzi agli spettacoli lirici, cercano di barcamenarsi come possono. Il risultato è stato, ahimè, assai deludente. L'orchestra amplificata in modo disomogeneo ha fatto sì che l'introduzione dell'arpa alla scena tenore/mezzosoprano del primo atto fosse a volume almeno triplo della sinfonia, i cui movimenti iniziali erano invero appena percettibili, analogamente al suono dei violoncelli che introducono Vieni, o levita, il cui volume era davvero modesto. Ancora: i microfoni panoramici posizionati sul boccascena hanno consentito di ascoltare ogni più minuto cigolio del sipario che saliva e scendeva, (specie sul pianissimo iniziale del Va' pensiero, martoriato da questi stridori insopportabili). Analogamente, la pur perfettamente eseguita Dio di Giuda di Carlo Guelfi è passata da un volume all'altro in base alla posizione del baritono. Non diversamente i concertati, dove la prevalenza delle voci era funzione della posizione fisica dei cantanti e non della loro capacità vocale.

Di questo, ripetiamo, non facciamo una colpa ai fonici, chiamati a svolgere un compito pressoché impossibile: amplificare uno spettacolo destinato alla rappresentazione acustica, in un luogo enorme e deputato a tutt'altro. Non credo sia mia opinione isolata il ritenere che l'opera debba essere rappresentata a teatro o in luoghi analoghi, in quanto le rappresentazioni in luoghi diversi finiscono sempre per deludere un po', tanto più quando lo spettacolo in sé sarebbe davvero pregevole, come in questo caso.

Chiara Plazzi

25/1/2015