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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Il giovane Verdi sull'ali dorate

Nabucco a Liegi

 

Si presenta con le più solide credenziali Nabucco, in origine Nabucodonosor sull'ottimo libretto di Temistocle Solera (Milano, Teatro alla Scala, 9 marzo 1842), del ventottenne Giuseppe Verdi: la sontuosa ouverture a cui segue il trascinante coro di apertura mozzafiato - in un'accorta alternanza di forza martellante e dolcezza struggente - che regge a testa alta il confronto con ‘Va, pensiero', senza volergli sottrarre il primato. Donizetti, che si trovava in quei giorni a Milano, ne fu spettatore assai favorevolmente impressionato. E Nabucco infatti lanciò prepotentemente alla ribalta il Maestro di Busseto, che aveva nel suo catalogo soltanto il promettente esordio con Oberto, conte di San Bonifacio (1839) e lo scivolone improvvido di Un giorno di regno (1840), dati entrambi alla Scala.

Nabucco produce una vera e propria scossa sul pubblico milanese in virtù della «forza maschia, spontanea, semplice» e del suo «linguaggio di emozioni, plastico e provocante» (Gustavo Marchesi). Nella vicenda biblica degli ebrei vinti da Nabucodonosor e deportati a Babilonia non era difficile riconoscere in trasparenza la situazione delle popolazioni italiane, ma dal dramma corale emergono le forti, ben distinte personalità del protagonista, di Abigaille la mal-aimée e del Sommo Sacerdote Zaccaria. Necessariamente in secondo piano il principe israelita Ismaele e la figlia del monarca assiro Fenena, poiché la loro storia d'amore pur essenziale occupa uno spazio minimo.

L'allestimento del Nabucco dato a Liegi nella seconda metà di ottobre è una coproduzione tra Opéra Royal de Wallonie e Israëli Opera di Tel Aviv. Un tale titolo con un doppio cast ha riempito di pubblico accorso anche da lontano, per nove rappresentazioni, l'elegante sala del Théâtre Royal (lo scrivente ha assistito alla penultima rappresentazione col secondo cast). La scenografia misurata ma funzionale di Alexandre Heyraud consiste all'inizio nello spoglio interno del Tempio di Gerusalemme, delimitato da una parete con teorie parallele di stelle di David, che l'invasore assiro farà crollare, così come verrà distrutta dallo stesso Nabucco subito dopo l'Arca dell'Alleanza posta al centro (che sembrerebbe piuttosto l'altare dai quattro corni). Allusioni queste abbastanza esplicite al cieco furore iconoclasta dei terroristi islamici della nostra epoca. L'azione si sposta poi nella reggia di Babilonia in una sala con portico e tribuna ornati da motivi geometrici dell'Assiria antica. Nel quadro conclusivo, che abbraccia la seconda parte del terzo atto ed il quarto, una piscina richiama il fiume Eufrate, sulle cui sponde gli esuli ebrei intonano il più celebre coro verdiano. Alla fine, dopo la conversione del re e in extremis della morente Abigaille al Dio d'Israele (Fenena, scampata al martirio, li aveva già preceduti), riappare la parete con le stelle davidiche.

Senza indulgere in ricerche “archeologiche” Fernand Ruiz ha ricreato con plausibile fantasia i costumi di ebrei e assiri, differenziandoli opportunamente. Spicca in bella evidenza l'estroso nonché voluminoso copricapo del Sacerdote di Belo, in particolare nel gesticolante (e superfluo) batibecco muto con Fenena, figlia ed erede del re, nel 2° atto (ché lei parteggia per gli sconfitti ebrei mentre lui spalleggia l'usurpatrice Abigaille). Di notevole suggestione nei vari momenti l'alternarsi puntuale delle luci di Franco Marri.

La regia firmata dal padrone di casa Stefano Mazzonis di Pralafera, che dell'ORW è direttore generale e artistico, ha un taglio tradizionale e in un certo senso rassicurante se si considera che con Nabucco, come con Norma, si può fare di tutto e di più. I movimenti di solisti e masse sono fluidi e ben guidati, le loro motivazioni credibili. Lo svolgersi dell'azione (che Nabucco sia statico, come già Semiramide, che ne costituisce in qualche modo un archetipo, lo lascio dire ad altri) si avvantaggia di taluni dettagli azzeccati. Notato l'episodio iconoclastico del primo atto, si aggiunga, ad esempio, che la torturata Abigaille è costantemente in agguato: a spiare gli amanti, il re, tutti. È lei la vera deuteragonista dall'inizio alla conclusione.

La direzione di Paolo Arrivabeni, direttore musicale della Casa, è sempre una garanzia, a maggior ragione nel repertorio italiano. Ma è purtroppo alla sua ultima stagione all'ORW: temo che, una volta partito, se ne sentirà la mancanza. Sin dall'ouverture questo Verdi è vigoroso, mai assordante, vibrante e fervido con tutte le tinte della sua tavolozza, coinvolgente fino all'irrefrenabile complicità. Il coro liegese, affidato a Pierre Iodice, non sbaglia ogni volta la mira nelle trascinanti pagine corali.

In affascinante confronto a distanza col veterano trionfatore del primo cast, cioè Leo Nucci, il baritono Ionut Pascu incarna un Nabucco fiero, protervo, ma anche generoso, sempre emozionante, in virtù di un timbro caldo, morbido ed eloquente. Modesta invece la prestazione del tenore Cristian Mogosan, a cui non si può dire che Ismaele gli si addica troppo. In Zaccaria il basso Enrico Iori si impone autorevole e persuasivo, poiché come basso verdiano sa il fatto suo, e si fa valere anche il secondo basso, Roger Joakim, quale Sacerdote di Belo. Sul versante femminile si distingue il mezzo soprano Nahama Goldman, che impersona Fenena, elegante, precisa e maliosa. Nei ruoli minori, l'Anna del soprano Anne Renouprez e l'Abdallo del tenore Papouna Tchuradze si disimpegnano entrambi onorevolmente.

Resta Abigaille, l'affascinante soprano Tatiana Melnychenko, che si misura intrepida e insolente con la terribile parvenue, assetata di un potere che le faccia dimenticare di non essere amata. In lei il furore e lo scherno e così il rimpianto e l'implorazione fanno vibrare le corde giuste e avvincono, convincono e commuovono. La sua morte di Abigaille alla fine, non mi vergogno a dirlo, mi ha fatto piangere.

Fulvio Stefano Lo Presti

13/11/2016

Le foto del servizio sono di Lorraine Wauters.