Più guerriglia aristocratica che conflitti eterni
Da molti anni ormai il teatro di prosa coltiva amorosamente l'abitudine di dedicare gran parte delle sue produzioni all'adattamento drammaturgico dei grandi romanzi dell'ottocento e del novecento, seguendo in questo una prassi che nel cinema, sin dal suo inizio, ha dato vita a celebri kolossal (Via col vento e Quo vadis in testa a tutti), riuscendo nel contempo ad avvicinare alla narrativa europea e americana platee sempre più vaste di spettatori. La narrativa prestata alla cinematografia, pur nelle sue scelte talvolta riduttive se non addirittura fuorvianti – ne è un esempio Il dottor Zivago, dove la storia d'amore tra Lara e Zivago è il punto focale della vicenda sullo schermo, in netto contrasto con l'originale, che vede la liaison tra i due protagonisti come un episodio abbastanza marginale, puntando invece l'accento sulle contraddizioni della guerra civile e sulle atrocità di questa – non può assolutamente essere paragonata all'analogo esperimento teatrale, per il semplice fatto che la staticità di fondo del teatro, pur nell‘abbandono delle unità aristoteliche, necessita di una drastica trasformazione del romanzo originario, con una contrazione del tempo ridotto quasi ad una singolarità in senso fisico, un tempo appiattito sulla scena, e un'analoga contrazione dello spazio alle dimensioni del palcoscenico, mentre la macchina da presa possiede la capacità di muoverli entrambi, con dissolvenze, didascalie e flash-back, passando rapidamente da uno spazio scenico all'altro, dal chiuso all'aperto, moltiplicando ove serva i piani narrativi e lasciando parlare le immagini invece degli attori. Si dirà che molte volte in passato sono stati gli autori stessi a ridurre i loro lavori per il teatro, e che un esempio potrebbe essere Luigi Pirandello: è vero, ma in tali casi l'operazione era affidata a chi aveva già narrato la vicenda, e che comunque tutte le riduzioni pirandelliane partivano da novelle e mai da romanzi: in buona sostanza, lo spazio narrativo abbastanza ridotto della novella, come quello del romanzo breve, può indubbiamente prestarsi a una trasposizione teatrale, ma certo le cose si complicano a dismisura quando si tratta di romanzi di grandi dimensioni o dall'impianto epico o corale. È questo il caso di Guerra e pace, l'opera più monumentale di Lev Tolstoj, dotata di una miriade di personaggi, di lunghissime pause narrative nelle quali l'autore riflette sulle vicende, sui pregi e difetti dei personaggi, ma soprattutto di due punti di vista che nel romanzo sono ben distinti e dotati ciascuno di una propria pregnanza: il piano bellico, affidato a lunghe diatribe tra i militari impegnati a combattere Napoleone, e quello della quotidianità dell'aristocrazia russa, che vive le sue vicende, le sue piccinerie e i suoi amori sotto l'ombra minacciosa del conflitto.
La riduzione teatrale del capolavoro tolstoiano, che Gianni Garrera e Luca De Fusco hanno realizzato, e che il Teatro Biondo di Palermo, il Teatro di Roma-Teatro Nazionale e il Teatro Stabile di Catania hanno prodotto e che è andata in scena per l'inaugurazione della stagione 2024/2025 del Teatro Stabile di Catania l'8 novembre (con repliche sino al 17), ripropone in sostanza l'esperimento condotto un anno addietro con l'altro caposaldo della narrativa di Tolstoj, Anna Karenina, in una sorta di ideale omaggio al grande russo, idea senz'altro lodevole, ma che se poteva reggere con un po' di buona volontà per Anna Karenina, mostra abbastanza le corde con un romanzo epico come Guerra e pace, dove la dicotomia sopra accennata si diluisce e annacqua a tutto vantaggio dell'aspetto amoroso della vicenda, rendendo la guerra quasi un riflesso delle schermaglie amorose dei giovani protagonisti, uno sfondo sanguinoso a quel che è la vicenda in primo piano. I dialoghi tolstoiani, molto ampi, impegnativi e portavoce dell'ideologia dell'autore, emergono sviliti in un via vai di attori perennemente affaccendati a vagare di qua e di là sul palcoscenico, tutti intenti a partenze improvvise per il fronte, improvvisi innamoramenti e disinnamoramenti, con una recitazione convulsa e affrettata, talvolta francamente caricata, che riduce Nataša a una ragazzina stupida e viziata, la giovane Bolkonskaja a una zitella inacidita dedita a una fede paranoica, Nikolaj a un innamorato da fotoromanzo, Vasìlij a un eroe romantico e Anatolij a un debosciato da quattro soldi. Gli attori, da Federico Vanni a Paolo Serra, da Giacinto Palmarini a Alessandra Pacifico Griffini, da Raffaele Esposito a Eleonora De Luca, fino a Mersilia Sokoli e Lucia Cammellari, fanno del loro meglio, con dedizione e interpretando anche più personaggi, ma tutta la loro recitazione è viziata dal difetto di fondo di una eccessiva tipizzazione, quasi una stereotipizzazione dei ruoli loro affidati, e da dialoghi eccessivamente banalizzati che a chi non ha mai letto il capolavoro tolstoiano non faranno certo venire la voglia di andarsi a leggere il romanzo.
Sullo sfondo di questo via vai a tratti davvero convulso, pur se sfumato dalle belle scene e dai costumi di Marta Grisolini Malatesta e dal disegno luci di Gigi Saccomandi, emergevano solo la composta e ironica Annette di Pamela Villoresi e il disincantato Kutuzov di Federico Vanni, mentre il Pierre di Francesco Biscione riusciva a far emergere tutto il disagio dell'intellettuale dinanzi alla Storia.
Completavano lo spettacolo, visivamente abbastanza accattivante, le suggestive creazioni video di Alessando Papa, le musiche di Ran Bagno e le coreografie di Monica Codena.
Applausi cortesi ma misurati da parte del pubblico.
Giuliana Cutore
11/11/2024
Le foto del servizio sono di Rosellina Garbo.
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