Le parole della memoria
In un'epoca in cui gli uomini vivevano assecondando il ritmo del giorno e della notte e quello delle stagioni, quando l'oscurità era veramente tale e non una tenue assenza di luce soffusa da migliaia e migliaia di lampadine, quando notizie di fatti e luoghi lontani dal proprio piccolo villaggio erano echi remoti di un mondo conosciuto solo per sentito dire, uomini in grado di usare la parola e la musica erano visti quasi come i sacri depositari di un sapere antico, arcano, che solo grazie ad essi si tramandava di generazione in generazione, affidato esclusivamente alla memoria e all'oralità.
Se il più illustre cantore di tutti i tempi, l'aedo per eccellenza, è quell'Omero che anche Foscolo volle ricordare nei suoi Sepolcri come vate e sacerdote della memoria collettiva, non c'era piccola comunità, montana o meno, che non conoscesse la figura del cantore, che su musiche antiche intonava canti ancestrali, che narravano di vita e morte, di guerra e pace, di amore, odio e collere divine. Naturale dunque che tali augusti personaggi rivestissero un ruolo di grandissimo rilievo, e che di converso il loro status morale li ponesse su un piano per così dire separato rispetto agli altri uomini; depositari di un antichissimo sapere, dovevano comunque trasmetterlo, e nel contempo assicurarsi che il nuovo depositario ne fosse degno, o degno almeno secondo i loro imperscrutabili canoni.
Su queste premesse, su una funzione umana, o semidivina, che il nostro mondo dominato dalla comunicazione scritta, visiva ed elettronica, e dunque sempre più spersonalizzata ed omogeneizzata non può più comprendere appieno, si basa una novella di Rainer Maria Rilke, dal titolo Come il vecchio Timoteo morì cantando, tratta dalla raccolta Le storie del buon Dio, del 1900, da cui Gioacchino Palumbo ha tratto un minuscolo spettacolo, a metà tra la cantata e una breve sacra rappresentazione, Nastienka e il cantore, andato in scena al Musco di Catania il 27 febbraio.
Un levigato cammeo, cui le musiche composte ed eseguite dal vivo su un harmonium indiano da Juri Camisasca hanno conferito un'aura antica, da nenia accanto al fuoco durante le lunghe notti sul Caucaso; semplici ma insinuanti, con melodie che si sgranavano lunghe seguitando la voce di Camisasca, che intonava ora in greco, ora in aramaico, in un farsi suono della parola, da cui emergevano qua e là brandelli più definiti, rimandanti a vocaboli antichi, accompagnavano senza mai sovrastarlo il lungo, doloroso monologo di Nastienka, giovane contadina amata prima e abbandonata poi dal figlio del cantore.
Al racconto dell'amore giovanile, delle notti di passione vissute tra i campi, faceva seguito la narrazione della feroce avversione del vecchio Timoteo che, odiando la giovane amata dal figlio, spingerà i due ragazzi alla fuga verso Kiev: ma la lontananza del figlio segnerà l'abbandono del canto da parte del padre, certamente rimasto privo del futuro depositario della sua arte. La consapevolezza che con lui si sarebbe estinta la memoria custodita nel canto lo spinge al mutismo, ma con altrettanto fatalismo il figlio, appena avuta notizia della grave malattia del padre, tornerà al villaggio natale per raccogliere l'eredità prima che sia troppo tardi, non esitando ad abbandonare per sempre Nastienka, che racconta la sua storia ad una giovane, impersonata da Marta Cirello, durante una pausa dell'accattonaggio a cui ormai è condannata.
L'aspetto più interessante del lavoro, che emergeva con prepotenza anche dalle movenze e dagli accenti della brava Ilenia Maccarrone, era appunto questa sorta di fatalismo rassegnato della giovane donna, che narrava il suo destino con tranquillità, con una compostezza quasi disumana, conscia istante per istante di doversi piegare ad un destino inflessibile ma tutto sommato giusto. E giusto perché è in gioco qualcosa che oltrepassa i destini dei singoli: la memoria collettiva di una comunità affidata al cantore.
Un lavoro scarno ma abbastanza pregnante, intriso di un trasognato lirismo che ha condotto il pubblico lungo un itinerario altro, in una dimensione contadina resa con pochi elementi dall'accorta regia dello stesso Palumbo. Di particolare effetto il taglio luci, curato da Franco Buzzanca. Unico neo l'estrema brevità della pièce, da teatro minimalista per tempi di crisi; forse non sarebbe stato male, almeno per il pubblico, accoppiarlo ad un altro atto unico per offrire uno spettacolo di durata adeguata al costo di un biglietto.
Giuliana Cutore
1/3/2015
La foto del servizio è di Antonio Parrinello.
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