RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Il corsaro sbarca a Genova

La stagione lirica del Carlo Felice di Genova sta per volgere al termine, ricca com'è stata di titoli allettanti: basti ricordare l'Idomemeo di febbraio e la Beatrice di Tenda di marzo. In chiusura, a giugno, ormai come da tradizione da qualche anno, saranno gli allievi dell'Accademia del Teatro stesso, diretta da Francesco Meli, a cantare: e lo faranno nel Barbiere di Siviglia.

Intanto a maggio, un'altra rarità: Il corsaro di Giuseppe Verdi. Un'opera sporadica nei cartelloni, non così infrequente come le neglette Alzira, Aroldo o Stiffelio – negli ultimi venti-trent'anni se ne sono avute alcune riprese; la prima moderna, nel 1963 –, ma in ogni caso mai entrato stabilmente in repertorio. Forse per la sua brevità; ma questo, nell'economia drammaturgica di Verdi, è da vedersi come un pregio, lui tutto inteso a far drammi d'azione serrata, almeno in questi «anni di galera»; forse per la supposta bruttezza dell'opera; ma nemmeno: perché, pur nelle sue due ore scarse, si scoprono perle ad ogni pagina. Forse per la sbrigatività con cui la scrisse, nell'inverno del 1847-48, di ritorno dalla buona, non ottima, accoglienza londinese dei Masnadieri, nella casa parigina della Strepponi dove alloggiava per finire Jérusalem – cosa che ha indotto gli studiosi a trattarla con pari corrività. Eppure, il soggetto gli era noto fin dal 1844 (e già Pacini se n'era servito, nel 1831, per il suo lavoro omonimo), quando la frequentazione dei testi di Lord Byron aveva prodotto I due Foscari; forse nel frattempo se n'era disamorato, e l'aveva considerato il meno peggio da rifilare a Francesco Lucca, con cui doveva ancora concludere un contratto. O forse ancora per il disinteresse con cui si sbarazzò della partitura, autorizzando Lucca a farne quel che voleva. All'epoca del contratto non si sapeva neppure in quale Teatro sarebbe stata data; e quando si optò per il Grande di Trieste – che sarebbe stato intitolato a Verdi il 27 gennaio 1901, mentre a poche centinaia di chilometri il dedicatario spirava a Milano –, l'autore non si degnò neppure di salire in carrozza e presenziare alla prima, il 25 ottobre 1848.

Oggi si guarda di buon occhio a questo Verdi cosiddetto minore. Di sicuro, cast e produzione del Carlo Felice non l'hanno considerato tale; anzi, per l'occasione hanno rispolverato l'allestimento ormai storico di Lamberto Puggelli, ripreso qui da Pier Paolo Zoni, che ne fa un racconto d'avventura, stilizzandone l'ambientazione senza però stravolgerne l'impianto librettistico (e per fortuna). Le scene, affidate a Marco Capuana, fanno di vele, sartie, gomene, alberi maestri e ponti di nave il loro fulcro, e pazienza se la «stanza deliziosa dell'harem di Seid» è appena accennata da quell'insieme di veli, dalle coriste/odalische, dalla scacchiera in primo piano, da quella vasca da bagno di foggia antica, e se l'«interno di una torre» è reso con una serie di corde verticali: deve dare l'idea di uno spaventevole luogo di reclusione, e così è. Un po' più enigmatica la lunga scala verticale, protesa oltre il limite del palcoscenico, su cui Corrado sale per poi verosimilmente gettarsi nei flutti tempestosi. Le luci di Maurizio Montobbio seguono a dovere ogni sfumatura cromatica, da quelle avvolgenti dell'harem, alla penombra serale-notturna delle «stanze di Medora», isolate dal contesto navale per mezzo di un panno scuro e rischiarate da una lampada e un candelabro, fino alle tenebre minacciose del suddetto carcere di Corrado. I costumi di Vera Marzot contribuiscono, per parte loro, a immergere l'opera nel puro spirito della romanticheria eroica byroniana, come il lungo caffettano color crema di Seid, la veste all'orientale di Gulnara, il delicato abito azzurro di Medora, la blusa, la camicia bianca e gli stivali di Corrado, al quale i capelli lunghi danno un tocco di indomita ribellione. Da segnalare poi le attente e realistiche istruzioni di Renzo Musumeci Greco, maestro d'armi che rende il combattimento, sciabole dei bianchi soldati di Seid contro i fioretti dei neri corsari di Corrado, una vera gioia per gli occhi, sullo sfondo cremisi delle navi date alle fiamme e di una musica incalzante: complimenti agli otto mimi che dan vita alla battaglia!

Il côté musicale vive alterne vicende, molte luci e qualche ombra. Sotto la bacchetta di Renato Palumbo, l'Orchestra del Carlo Felice perviene a un'esecuzione all'insegna della giusta drammaticità, energica e decisa, non esagitata, sebbene alcune volte il volume prevaricasse le voci. Nulla di grave, ad ogni modo, piccoli episodi in cui l'entusiasmo dei tutti orchestrali ha preso la mano agli orchestrali stessi. Di pregio sono il tempestoso Preludio, tra gli altri numeri, e la dolente introduzione al duetto Corrado-Gulnara del terzo atto.

Si venga ora al cast. Irina Lungu non è alla sua prima Medora. Dal sito Operabase, è alla sua quarta. Cantò ad esempio il ruolo nella ripresa del 2008 al Teatro Regio di Parma con lo stesso allestimento – tra l'altro, qui, una coproduzione, appunto, tra il Carlo Felice e la piazza parmense. Di conseguenza, ha avuto tempo e modo di indagare il personaggio. Lungu porta in scena, ed è da credere volontariamente, una Medora stanca, remissiva, arrendevole. Afflitta. Stanca delle continue partenze e ripartenze del marito; remissiva al suo volere; e perciò arrendevole. Traspare questo dalla sua recitazione e dal suo canto volutamente spoglio, sbiancato, lineare, in qualche modo etereo, oltre la vita. Ed è in queste finezze che si coglie il meglio della sua interpretazione.

Di opposta tendenza è la Gulnara di Olga Maslova, dallo strumento ricco, scuro e brunito, metallico e vibrante, omogenea su tutta l'estensione, anche se stranamente con acuti privi di tridimensionalità, e in grado di padroneggiare un'ampia gamma di atteggiamenti espressivi, dalla sfrontatezza alla seduttività, dalla passionalità alla compassione. Attorialmente si adatta bene al personaggio volitivo e battagliero, e risulta nel complesso assai credibile.

La pomeridiana di domenica 26 maggio 2024, di cui qui si dà conto, prevede, come le tre recite precedenti, un solo intervallo tra secondo e terzo atto. Quella provvidenziale manciata di minuti ha però giovato a tutte le voci, soprattutto a quella di Mario Cassi quale Seid, che, un po' in difficoltà nel secondo atto, dove difetta quanto a volume e proiezione di voce, si rifà ampiamente nella scena e aria Il fier corsaro… Cento leggiadre vergini e nel successivo duetto con Gulnara; entrambi i numeri vengono risolti dignitosamente e senza eccessive difficoltà. Si segnalano tuttavia diverse battute imprecise e una dizione non sempre soddisfacente – apertura e chiusura delle vocali e articolazione sillabica.

Quarantaquattro anni appena compiuti a maggio (coscritto di Lungu, un mese più vecchio), è però il genius loci Francesco Meli la star della recita, che dota il suo Corrado di un canto spianato e fiero, presente dalla prima all'ultima nota, con un volume di voce notevole e un fraseggio elegante e curato, in grado di rivestire il testo di grande espressività. Particolarmente ben riusciti – ma ad essere onesti è riuscito bene tutto – sono stati la scena e aria Fero è il canto… Tutto parea sorridere, scenicamente d'impatto, con Meli arrampicato sul sartiame, al centro del palcoscenico in controluce, e il già citato duetto con Gulnara Eccomi prigioniero, capolavoro di cesello e padronanza scenica.

Convince meno il comprimariato, il Selimo di Saverio Fiore, il Giovanni di Adriano Gramigni, l'Eunuco di Giuliano Petouchoff, che sostituisce Emilio Cesar Leonelli; bene invece per lo Schiavo di Matteo Michi. E bene anche per il Coro del Carlo Felice, istruito da Claudio Marino Moretti.

Al termine della recita, gli applausi lunghi e convinti da parte di un teatro particolarmente gremito richiamano gli artisti numerose volte sul palco. In mezzo a loro, un corista arrivato alla pensione è stato festeggiato con gli onori della ribalta; il suo grazie! gridato alla platea non ha mancato su suscitare la simpatia di tutti.

Christian Speranza

29/5/2024