RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

L'Ange vola su Bergamo

Verso la fine del 1838 Donizetti si trasferisce a Parigi. Il 6 agosto 1839 mette in scena al neonato Théâtre de la Renaissance la versione francesizzata della sua Lucia di Lammermoor di quattro anni prima, che diventa per l'occasione Luci. Convinto da questo successo, il direttore Anténor Joly lo convince a scrivere altri due lavori: L'ange de Nisida e La fiancée du Tirol. Per la prima delle due Donizetti rispolvera una vecchia partitura mai ultimata, l'Adelaide, forse del 1834, e la adatta ai versi che stendono all'uopo Alphonse Royer e Gustave Vaëz. A questa musica se ne aggiunge altra e, in pochi mesi, con la consueta rapidità, l'Ange è pronto. Nel febbraio del 1840 va in prova e vi resta fino a maggio – nel frattempo il nostro ha modo di tradurre e rielaborare lo sfortunato Poliuto , che diventa Les martyrs (Opéra, 10/04/1840), di lavorare al Duc d'Albe, che poi non finirà, di comporre La fille du régiment (Opéra-Comique, 11/02/1840) e di adattare al gusto francese Roberto Devereux e L'elisir d'amore. Sennonché, proprio nel maggio 1840, a ridosso del debutto dell'Ange, la Renaissance fallisce e chiude.

Nella Parigi dell'epoca tre erano i teatri d'opera principali: l'Académie royale de musique, cioè l'Opéra, che dava l'opera “colossal” (i grand opéra alla Meyerbeer e simili); l'Opéra-Comique, con lavori brillanti, più leggeri (ma non necessariamente), con dialoghi parlati alternati a brani cantati; e il Théâtre-Italien, con opere italiane. I tre teatri detenevano anche il monopolio dei generi, con un sistema affine al moderno copyright. L'introduzione sulla piazza parigina di un quarto teatro, quello della Renaissance, appunto, si pose subito come problematica. Quale genere avrebbe potuto mettere in scena? Anzitutto, è da dire che inaugurò con un lavoro in prosa, il Ruy Blas di Victor Hugo. Ottenuta poi l'autorizzazione a eseguire lavori in musica, venne il problema del repertorio. Si provò a evitare la diatriba legale coniando l'opéra de genre, sorta di ibrido di opera in lingua francese ma di gusto italiano, con recitativi cantati e non parlati, in due atti – definizione pasticciata sotto la quale rientrarono un buon numero di lavori, Lucie compresa, in barba alla scansione in due atti –: ma anche così, il piccolo teatro ribelle non ebbe vita lunga.

Svanita la collaborazione con la Renaissance, Donizetti ricicla alcune pagine per la commissione successiva, smembrando fisicamente la partitura dell'Ange e inserendone alcuni fogli in quello che sarà l'autografo de La favorite, che andrà in scena all'Opéra il 2 dicembre di quello stesso 1840. Le pagine dell' Ange vengono così a trovarsi in parte a Parigi, presso la Bibliothèque Nationale de France (quelle non incluse nella Favorite), parte nel plico manoscritto della Favorite stessa, dagli anni '70 in possesso di un privato anonimo e consultabile solo grazie a un microfilm ospitato alla Library of Performing Arts di New York.

Esprimendosi con Don Alfonso, l'Ange tutto intero «Che vi sia ciascun lo dice, / Dove sia nessun lo sa». Di fatto, è un po' qui, un po' là. Questo, per lo meno, fino all'arrivo di Candida Mantica, musicologa calabrese che, nel corso del suo dottorato alla Southampton University, ha riordinato, in otto anni di paziente dedizione, le circa 470 pagine della Bibliothèque Nationale, integrandole col microfilm newyorkese. Il suo lavoro è stato coronato dalla prima esecuzione assoluta in forma di concerto alla Royal Opera House di Londra, il 18/07/2018, e in forma scenica mercoledì 13/11/2019 (con repliche sabato 16 e giovedì 21) al Teatro Donizetti di Bergamo. O meglio, nel suo cantiere, ché il Teatro vero e proprio, chiuso dall'ottobre 2017, è ancora attualmente in ristrutturazione.

È idea ardimentosa e originale allestire nel cantiere di un teatro un'opera che, alla luce dei successivi sviluppi, è stata vista dalla storia della musica come il cartone preparatorio, il “cantiere”, appunto, di un'altra – della Favorite, appunto. A una disamina più ravvicinata, il duetto Sylvia-Leone del primo atto, il quartetto Don Gaspar-Don Fernand-Le Moine-Sylvia del secondo (che diventerà il finale II della Favorite), quasi tutta la seconda metà del terzo e buona parte del quarto confluiranno nella Favorite, talvolta con musica affidata a voci differenti e con uno scostamento delle funzioni drammaturgiche iniziali, benché gli avvenimenti chiave delle due trame siano, grosso modo, equivalenti.

Tre le repliche totali al Donizetti, si diceva, nel corso nel Donizetti Opera Festival edizione 2019, comprendente anche Lucrezia Borgia e Pietro il grande, kzar delle Russie, col pendant sacro della Messa di gloria.

L'edizione scelta è più fedele rispetto a quella eseguita in concerto a Londra (e incisa per Opera Rara). Via il preludio e i recitativi composti per l'occasione da Martin Fitzpatrick, il primo non necessariamente nelle intenzioni dell'autore, i secondi scritti per puro riempimento, e via anche l'imprestito dalla Maria di Rohan, col quale si cercava di risolvere la vexata quæstio dell'aria di Sylvia. Dove non è stato possibile ricostruire i passaggi cantati (giusto poche battute, per fortuna), si son fatti mimare da parte dei cantanti i dialoghi, riportati nei sopratitoli in teatro: trovata che non altera il materiale musicale con aggiunte non documentate, ad esse preferendo il silenzio. La più scontata delle idee, far semplicemente recitare questi dialoghi, avrebbe avvicinato l'Ange al genere dell'opéra comique, come s'è detto prerogativa, all'epoca, dell'omonimo teatro. Resta il problema di rendere questi dialoghi in un'eventuale futura incisione su CD, priva del supporto visivo.

Quanto al supporto visivo, tocca ora alla regia, affidata a Francesco Micheli (dal dicembre 2014 direttore artistico del Donizetti Opera Festival), con scene di Angelo Sala e costumi di Margherita Baidoni. Micheli si è trovato a dover allestire l'opera in un teatro in ristrutturazione, come anticipato. La necessità aguzza l'ingegno: e qui d'ingegno Micheli dà prova, sfruttando lo spazio della platea, privo di poltroncine, per l'azione scenica, col pavimento coperto di fogli pentagrammati a simboleggiare la ricostruzione dell'opera, spettatori nei palchi e in una tribuna sul palcoscenico, dietro un busto di Gaetano, spettatore illustre. Il coro canta dal loggione, facendo piovere altri fogli (o fiori, quando osanna il re). Giocoforza, l'orchestra viene capovolta rispetto alla normale orientazione, col direttore a guardare la platea.

Di regia simbolica si parla, e non didascalica, una tendenza à la page che almeno in occasione della prima rappresentazione scenica in assoluto avrebbe potuto essere evitata, se non altro per stabilire un canone dal quale via via (eventualmente) distaccarsi e distanziarsi. Tutto è da vedere sub specie symboli, e non occorre protestare di fronte alle indicazioni librettistiche disattese. Ecco quindi Sylvia entrare in scena in sottana e alucce da putto, quasi vittima sacrificale per il regio sollazzo. Ecco il re dipinto come il capo di un clan camorrista (vista la geografia di Nisida: ma ci saremmo volentieri risparmiati questo tentativo di attualizzazione alla Saviano) in completo nero, o in frac, che manovra tutto e tutti dall'alto di atteggiamenti spavaldi e con la sicumera del suo titolo (salvo poi scoprirsi uomo geloso al pari di tanti altri a ridosso del matrimonio tra Leone e Sylvia). Suo degno compare, un Don Gaspar biancovestito a capo di altri quattro camorristi (figuranti) in pantaloni e giacca neri su camicia bianca e coi coltelli a serramanico spianati a ogni piè sospinto (escamotage che può andar bene una volta o due, poi basta) e pronti a spintonarsi e attaccar briga ogni due per tre. Leone è tratteggiato non solo come un ragazzo ingenuo, quale deve essere da copione, ma talvolta come un bambino imbronciato o eccessivamente felice (al punto da abbracciare il re) – atteggiamenti infantili che non si conciliano con un personaggio che a inizio opera è un omicida fuggiasco per un duello finito male. Forse il più credibile è il Monaco, il cui saio chiaro si avvicina a un verosimile che, in un contesto non verosimile, diventa a questo punto fuori posto. Anche il coro, quando è chiamato a impersonare i panni dei cortigiani, viene vestito simbolicamente da costumi di carta, che si stracciano in nome di un'apparenza ingannevole svelata. Sono costumi variopinti, con colori pastello, da disegni animati, vagamente a metà tra fogge quattro-cinquecentesche e abiti di corte cinesi. Molto è lasciato all'immaginazione dello spettatore (sciagurato chi ne ha poca o punto!), limitando l'attrezzeria di scena a una manciata di oggetti, un cubo metallico a specchio per il trono di Don Fernand e poco altro. Eppure, nonostante queste sconnessioni, forse anche per merito dell'uso singolare, insolito e stravagante dello spazio teatrale e delle luci (a cura di Alessandro Andreoli), la macchina registica pare funzionare, se non proprio convincere appieno. Vi è l'entusiasmo della riscoperta che trascina, e che fa sorvolare, e, perché no, apprezzare l'eccentrica location e il taglio quasi fiabesco, surreale della mise en scène.

 

Il cast prevede Florian Sempey (Don Fernand d'Aragon), Roberto Lorenzi (Don Gaspar), Konu Kim (Leone de Casaldi), Lidia Fridman (La comtesse Sylvia de Linarès) e Federico Benetti (Le Moine). Si riferisce qui della terza replica di giovedì 21/11/2019. Considerando che l'acustica del Teatro, dato lo stato attuale dei lavori, non è ottimale e che i cantanti, per motivi registici, devono muoversi come su un palcoscenico elisabettiano, col pubblico attorno e non solo di fronte, l'esito della recita si attesta su un buon livello complessivo, che vede eccellere le due voci gravi principali, Florian Sempey e Roberto Lorenzi, solide, potenti e brillanti, con quel tocco di ruvidezza che non guasta per sottolineare il tratto più ruspante dei loro caratteri. Il Don Gaspar di Roberto Lorenzi, in particolare, più che configurarsi come elemento buffo, assume tratti grotteschi, uno Iago meno raffinato, più goffo, più traffichino. Il Don Fernand di Florian Sempey mostra i tratti di un uomo rude, che non si fa scrupoli di alzare la gonna a una sdraiata e sottomessa Sylvia (d'altro canto, poche chiacchiere: è l'amante del re e il re la tiene per tale, salvo poi ingelosirsene quando avverte la minaccia che le venga sottratta). Già: Sylvia. La ventitreenne russa Lidia Fridman, giovane ma già con alle spalle diversi ruoli belcantistici, compreso uno di nicchia come Ecuba dell'omonimo lavoro di Manfroce (Festival della Valle d'Itria, 45ª edizione, 2019), restituisce una Sylvia a tutto tondo, che evolve nel corso della vicenda, da immagine di purezza quasi burattinesca, inconsapevole – le suddette alucce da putto – (aiutata anche da un physique du rôle alto e diafano), fragile da proteggere in un simbolico sarcofago, a eroina che si autodetermina, decidendo di penetrare in una realtà preclusa alla donna come un convento di frati e morire per amore. Vocalmente convince su tutta la linea, eccezion fatta per talune asprezze nella zona acuta, che inacidiscono un timbro peraltro dolce, morbido e melismatico. Il coreano Konu Kim tratteggia invece un Leone, come si diceva, eccessivamente infantile e naïf. È un tenore di grazia di stampo rossiniano, ma che per ottemperare al ruolo tenta un approccio verista (col risultato di sforzare negli acuti), facendo leva su un illanguidito patetismo. A fine recita accusa una visibile stanchezza. Ancor meno bene per il Monaco di Federico Benetti, dotato di uno strumento dal volume insufficiente, sovente calante.

Compensa l'ottimo Coro Donizetti Opera, ben istruito da Fabio Tartari, e la direzione di Jean-Luc Tingaud, alla testa dell'Orchestra Donizetti Opera, che accompagna e regge con intelligenza una performance della quale, vale ricordarlo, per ora esiste soltanto la già menzionata incisione di Opera Rara a far da confronto o da cui trarre ispirazione.

Christian Speranza

30/11/2019

Le foto del servizio sono di Gianfranco Rota.