Lucrezia Borgia: il volto e la maschera 
In Lucrezia Borgia Donizetti, con l'importante contributo del librettista Felice Romani, scompagina gli schematismi melodrammatici coevi per offrire una declinazione della vicenda particolarmente sfaccettata nell'emotività dei protagonisti, colma di fosche tinte notturne. Punto di partenza il dramma omonimo di Victor Hugo che, in chiave totalmente romantica, raffigura una Lucrezia complessa, dalle risonanze molteplici e financo contraddittorie. Dopo un'assenza di quarantacinque anni, il titolo viene ora riproposto al Teatro dell'Opera di Roma in un allestimento esteticamente apprezzabile, ma piuttosto vacuo dal punto di vista registico. Il prologo, ambientato sulla terrazza del palazzo Grimani a Venezia, è dominato da una grande maschera sospesa, drappeggiata da veli rosso acceso. Il medesimo impianto, con suggestive variazioni cromatiche (ottimo il lavoro di Marco Filibeck sulle luci), torna nel secondo atto. Nella prima scena del primo atto il blasone oltraggiato da Gennaro, che tramuta Borgia in orgia, è una sorta di insegna su campo nero, mentre nella seconda scena il palazzo ducale di Ferrara mostra il colossale ritratto della nobildonna, con attorno miriadi di maschere bianche che occhieggiano la scena. Il tema della maschera, del contrasto fra realtà e apparenza, domina la vicenda. Come Giano bifronte i coristi indossano due volti, dietro la nuca e sul viso. Peccato che la regia di Valentina Carrasco, piuttosto schematica, non riesca a declinare il tema con maggiore pregnanza.
Il sipario si apre con il rapimento del piccolo Gennaro, figlio illegittimo di Lucrezia. Il fanciullo si rivedrà alla fine, proiezione della mente offuscata della crudele genitrice, mentre il giovane spira avvelenato dal tosco. Volgare e inutile il gesto sessuale con cui Lucrezia cerca di convincere il duca Alfonso a risparmiare il figlio Gennaro nel duetto del primo atto. Apprezzabili i costumi di Silvia Aymonino, in bilico fra passato e presente senza rinunciare all'eleganza. Spettacolo, nel complesso, appagante dal punto di vista visivo, meno da quello contenutistico. Roberto Abbado tratteggia atmosfere acquatiche e cangianti, distillando i colori plumbei dei quali è intrisa la partitura con direttoriale sapienza e solido mestiere. Lidia Fridman non è esattamente una belcantista come la Sutherland, ultima interprete vista in questi panni sul palcoscenico romano, ma ha notevole dimestichezza con i ruoli femminili più impervi e oscuri. Ne scaturisce una lettura convincente, ricca di inquietudine e dramma; la donna risalta nella sua crudele spietatezza, ma non è esente da fragilità materne. Alex Esposito (Alfonso I d'Este) ha dalla sua un temperamento incandescente e una perfetta padronanza della dizione, il che gli permette di modellare con efficacia i momenti più intensi, in particolare i recitativi. Dall'altro lato la vocalità irrisolta, in bilico fra il basso e il baritono, e l'impeto a tratti eccessivo sporcano un'interpretazione che, occorre dirlo, non difetta mai di coinvolgimento emotivo. Enea Scala è un Gennaro dal timbro non molto accattivante, ma in grado di risolvere le difficoltà della parte offrendo una prova di sostanziale correttezza. Brava Daniela Mack, perfettamente a proprio agio nel ruolo en travesti di Maffio Orsini. Buone le numerose parti contorno. Ottima infine la prova del coro, ben preparato da Ciro Visco. Applausi convinti, anche se non entusiastici, in occasione della prima. Riccardo Cenci
19/2/2025
La foto del servizio è di Fabrizio Sansoni-Teatro dell'Opera di Roma.
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