Potrebbe esser peggio…
Coperti di terra, di notte, dopo aver trafugato il cadavere di un criminale, spingendone la bara fuori dalla fossa, il trisnipote del dottor Frankenstein si rivolge sconsolato al suo assistente Igor, che ironicamente cerca di confortarlo: «Potrebbe esser peggio – E come? – Potrebbe piovere». E proprio in quel momento un tuono e un lampo danno inizio a una pioggia scrosciante. La celebre gag di Frankenstein junior è diventata proverbiale di una situazione che appunto non potrebbe esser peggio, o se lo diventa, è perché il destino ci mette del suo nel raschiare il fondo dopo averlo toccato. Se per le festività natalizie il San Carlo di Napoli ha optato per una anticonvenzionale Terza di Mahler, in nome di un panteismo né cristiano né pagano ma che sa di sovrannaturale, gli enti torinesi si sono mantenuti su scelte più tradizionali: Lo schiaccianoci di Cajkovskij al Teatro Regio, col Balletto dell'Opera di Tbilisi (che ha portato nella stessa tournée anche la versione mimata e coreografata dei Carmina burana di Orff) e, con un guizzo di originalità in più, la Nona Sinfonia di Beethoven con l'Orchestra Sinfonica Nazionale (OSN) sotto la guida di Ion Marin, che ha sostituito all'ultimo il previsto direttore emerito Fabio Luisi, indisposto.
La Sinfonia nº9 in re minore Op.125 si presta a un'esecuzione in spirito natalizio in virtù del testo di Schiller, un invito alla fratellanza universale sotto l'ala benevola di Dio e della gioia in un kantiano, illuministico afflato al superamento delle differenze individuali – cui si perviene lungo il tortuoso itinerario dei primi tre movimenti –, che è molto di più di un esteriore volemose bene, ma un messaggio lanciato all'umanità affinché si riconosca tutta uguale in nome della dignità insita nell'essere umano stesso. Non per nulla inizialmente il titolo dell'ode non era Alla gioia, ma Alla libertà, poi modificato per prudenza: scritta nel 1785 e pubblicata l'anno dopo (siamo negli anni del Mozart viennese che scrive Le nozze di Figaro, in cui un conte e un factotum hanno pari diritti – dove s'era mai visto? – e pochi anni dopo il clima sarà abbastanza caldo da far esplodere la Rivoluzione francese), questo testo ha colpito fin da subito l'allora ventiseienne Beethoven che vi vedeva, redivivo e scritto una buona volta nero su bianco, l'ideale greco dell'uomo come partecipe della scintilla divina, cristianamente intesa. Il desiderio di metterla in musica lo accompagna per tutta la vita: nei quaderni di schizzi vi sono frammenti che in qualche modo confluiranno nella Nona a far data, secondo Mila (Lettura della Nona Sinfonia), dal 1804. I veri appunti preparatori sono del triennio 1817-19 e la stesura vera e propria, dopo un intervallo in cui nacquero la Missa Solemnis Op.123, le Variazioni Diabelli Op.120 e l'ultimo trittico di Sonate per pianoforte, Op.109, 110 e 111, risale al 1822-24. In febbraio termina la partitura e il 7 maggio dello stesso anno se ne ha la première.
Il richiamo della Nona è potente ancor oggi, e se ne ha avuta la prova la sera del 23 dicembre 2022, dove presso l'auditorium Arturo Toscanini di Torino si è registrato il tutto esaurito con una cospicua partecipazione di giovani. Tutto è pronto per il concerto, con la trepidazione vieppiù fomentata da uno studiato ritardo di pochi minuti: orchestra schierata, luci abbassate, mormorio in sala che pian piano cede il posto al silenzio, l'attesa dell'entrata del direttore, l'applauso al suo arrivo. Personalmente non lo vedevo dal 24 settembre 2020, Ion Marin, quando su questo stesso palco aveva diretto la Seconda di Beethoven e la suite da Der Bürger als Edelmann di Strauss: era stato lui a darmi, si fa per dire, il benvenuto per il mio primo concerto in epoca post- lockdown, e la voglia di accoglierlo con la miglior predisposizione d'animo era tanta.
Ma quale non è stata la delusione nell'assistere alla peggior Nona che si possa immaginare! E sia detto per dovere di cronaca, perché riferire di notizie spiacevoli, soprattutto in un periodo di feste, non è mai bello. Prendiamo l'apertura del primo movimento, Allegro ma non troppo, un poco maestoso: dalle quinte vuote tenute di corni, violini secondi e violoncelli in pianissimo prende forma poco a poco il primo tema, dapprima per accenni, rapide e fugaci pennellate dei violini primi sottovoce cui rispondono viole e contrabbassi, spaziate da pause; poi le pause si raccorciano; intanto i legni, con un processo di accumulazione, rinforzano i corni tenendo le stesse quinte: prima i clarinetti, poi gli oboi, poi i flauti – un procedimento che sfrutterà svariate volte Bruckner nelle sue sinfonie e che nella Terza pare proprio ricalcarlo in modo pedissequo –: il tutto in un crescendo costante che quando esplode nell'esposizione del primo tema completo investe la piena orchestra. Nella lettura di Marin, invece, mancano i pianissimi e i sottovoce, fondamentali per la creazione del climax, di quello stato di indugio, di preparazione: si parte già da un piano o da un mezzo forte, ed è chiaro che partendo da questa dinamica e non potendo andare oltre un certo limite, la forbice di intensità sonora si riduce, svilendo quell'effetto di corda tirata fino all'insostenibile. A questo, forse, Marin pare rimediare rallentando il tempo quasi come un Celibidache o un Klemperer: ma dei due illustri colleghi manca qui lo scavo della pagina, il lavoro di sbalzo e di bulino. A ciò si aggiunga che i fiati vengono mantenuti “a due” (due flauti, due oboi, ecc.), mentre il contingente degli archi viene allargato ai sedici violini primi (quindi sessanta elementi in tutto), sproporzionati e antifilologici. La mancanza di contrasti dinamici pervade tutto il primo movimento – anche gli altri per la verità, ma di meno –, cui si accompagna un'interpretazione piatta, poco vigorosa, unita a una generale impressione di sfocatura, qualcosa di indefinibile che avrebbe dovuto esserci e che non c'è stato. Procede leggermente meglio nel Molto vivace che segue, formalmente lo Scherzo della sinfonia posto qui al secondo posto anziché al terzo. Persiste anche qui il problema delle dinamiche troppo forti, in un pezzo che fa del crescendo una delle sue leve emozionali più importanti; l'agogica è un poco più in linea con lo spirito del pezzo, benché, lungi dall'essere quella vitalistica e sconvolgente cavalcata che dovrebbe essere, l'intera sezione A e A' – quelle che nello Scherzo non sono il Trio, per capirci – si ritrova zavorrata da un tempo che la frena nella sua espressività, quest'ultima rimanendo confinata nel campo della pura esecuzione pedestre senza il valore aggiunto, il quid che fa la differenza, il fuoco, l'interpretazione. Si salva il Trio, più semplice da dirigere e meno complesso nella sua struttura. Gli strumenti si prendono un attimo per ritrovare l'accordatura e si parte per le variazioni del terzo movimento; ma, proprio quando penso che i tempi rallentati e trattenuti non potranno fare che bene al clima irenico che spira dalle distese azzurre schiuse dal si bemolle del primo tema, ecco che il tempo accelera, laddove Beethoven prescrive Adagio molto e cantabile! La magia di questo brano non viene neanche innescata, muore ancor prima di incominciare, trovando qualche spunto ben eseguito verso la fine all'arrivo delle fanfare e della rarefazione che ne segue.
Primo esempio di Finalsinfonie, ove, contravvenendo alla prassi dell'epoca, il Finale non è il movimento più breve e leggero, ma quello più lungo e impegnativo (oltre che impegnato), la Nona si chiude con l'ingresso delle voci (anche qui, prima volta che succede nella storia), dopo la “fanfara del terrore”, come Wagner ha definito l'attacco del Finale. Ma qui non terrorizza nessuno. E dopo una ricapitolazione dei temi dei primi tre movimenti, interrotti dal recitativo di violoncelli e contrabbassi all'unisono, ecco arrivare il tema della gioia, esposto a piena orchestra. È il turno del baritono, che intona i versi prima di Beethoven stesso («O amici, non questi suoni!»), poi di Schiller («Gioia, bella scintilla degli dèi»): ma povero Tómas Tómasson, quasi completamente coperto dal pur esiguo accompagnamento orchestrale (oboe in primo piano) e ancor più povero Nicky Spence, il tenore che attacca «Gioiosi come i Soli trascorrenti per la splendida pianura del cielo», anche più coperto, completamente inudibile, complice sia uno squillo quasi inesistente, sia l'orchestra sospinta oltre il conveniente! Non va molto meglio nei passaggi in cui è impiegato tutto il quartetto vocale, completato dal soprano Uliana Alexyuk e dal contralto Valentina Stadler: esecuzione scoordinata, né svettante sopra l'orchestra, né da essa velata, amorfa. Almeno il Coro del Teatro Regio sarà una garanzia, penso. Stavolta no. Vuoi per l'inadeguata preparazione da parte del pur normalmente valido Andrea Secchi, vuoi per l'acustica dell'Auditorium che soprattutto per le masse corali non è il massimo (ne avevo già avuto il sentore nella Resurrezione a inizio stagione, pur avendone taciuto), vuoi per una mancata intesa col direttore, che, ricordiamolo a sua discolpa, è venuto a prendere il posto di Luisi e ha avuto ben poco tempo per le prove, la parte maschile sopravanza decisamente quella femminile in prestanza vocale, e tra le due sezioni non pare esserci cooperazione; in generale, il volume espresso è perfino eccessivo per le risorse dell'orchestra e della sala – retaggio del fatto che si tratta di un coro abituato a cantare opera? – e ciò dimostra come cantare al massimo della potenza non sia sempre una scelta vincente.
Neanche l'Orchestra Sinfonica Nazionale, normalmente di grande eccellenza, stavolta pare essere in forma. Si rinvengono durante l'esecuzione parecchie manchevolezze e cadute di stile. Trombe dal timbro acido, oboi striduli e due evidentissime diacronie tra grancassa e controfagotto all'inizio dell'episodio “alla turca”, che solo al terzo intervento riescono nell'intento di essere sincroni, sono solo alcuni esempi. Si salva la sezione degli archi, da sempre quella che si contraddistingue per il nitore esecutivo. Voglio credere che sia da imputare al poco tempo avuto per resettare l'esecuzione, passando da Luisi a Marin, e alla mole di lavoro da smaltire, dato che due giorni dopo avrebbero suonato nel tradizionale concerto nel Sacro Convento di Assisi, perché normalmente il loro standard esecutivo è molto più alto.
Almeno fuori non ha piovuto…
Christian Speranza
30/12/2022
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