Norma
alla Fenice di Venezia
La superba partitura di Vincenzo Bellini, Norma, è stata assai rappresentata al Teatro la Fenice e nei ruoli principali furono impegnati il gotha canoro del momento. Nell'odierna stagione è riproposta, a distanza di ventidue anni dall'ultima edizione, in una nuova produzione in collaborazione con la Biennale Arte di Venezia.
Tralasciamo genesi, struttura e compianti grandi interpreti, Norma, seppur oggi poco rappresentata è titolo di repertorio, pertanto è assolutamente importante fare un preambolo sulle concezioni che la regista, scenografa e costumista Kara Walker ha evidenziato per realizzare lo spettacolo. Ella ha spostato l'azione nell'africa coloniale di fine secolo XIX, prendendo spunto dal libro Cuore di tenebra di Joseph Conrad, nel quale sono narrati efficacemente gli orrori del colonialismo e dello schiavismo. Norma l'abbiamo vista in molte versioni, pertanto anche questa non scandalizza, anzi, l'idea in sè è originale e pertinente, perché mostra lo scontro di civiltà tra due popoli, ponendo in relazione anche le opposte fazioni: il conquistatore e oppressore contro l'invaso e sottomesso. È rilevante ricordare che la Walker è artista afroamericana la cui opera artistica è da sempre incentrata su tale aspetto storico e sociale. Purtroppo questi temi con Norma c'entrano poco, o niente, poiché l'opera è più basata sugli affetti privati che sullo sfondo storico dei romani che conquistano la Gallia, il quale rimane in margini molto ben tracciati giacché non vi sono che due soli romani, Pollione e Flavio, niente battaglie, niente cori di conquista da parte dei romani. Della regista si apprezzano solo le scene, talora astratte o naturistiche, ben evidenziate da mano che di arte ne sa. Tutto si ferma qui. Manca in primis un'idea registica, uscite ed entrate senza una precisa indicazione, coro schierato senza un minimo di razionalità, solisti statici e franati o solamente approssimativi nel tentare qualcosa di autonomo. Non contribuivano a questa pesante e noiosa visione i costumi, della stessa regista, che rasentavano il ridicolo quando si notava che Oroveso indossava la pelle di giaguaro (come Totò nel celebre film), Pollione e Flavio erano due stereotipati coloni con cappellino e divisa beige (mancava solo la rete per cacciare le farfalle!), Norma una sorta di sacerdotessa punk. Si poteva sicuramente fare di meglio, e avere un senso teatrale tale da non permettere di scivolare nel farsesco, come ad esempio i coristi che nella scena finale parafrasavano drag-queen d'improbabile presenza africana. In definitiva tante idee anche originali ma pochi contenuti e molte sbandate nella realizzazione.
Sul versante musicale non abbiamo trovato la controparte che spesso appaga l'udito quando la visione è deludente. Chi ha compromesso in maniera decisiva questa Norma è stato il direttore Gaetano D'Espinosa, il quale con Bellini, e presumo tutto il romanticismo operistico, non ha nulla da spartire. Ouverture frastornante e tempi sempre fuori luogo, o troppo forti o troppo lenti, come nel finale atto primo ove in luogo di tensione e furore abbiamo udito un terzetto accompagnato come fosse un largo di Mahler. Ed è un peccato giacché l'orchestra della Fenice è cresciuta molto in questi anni e avrebbe potuto seguire benissimo indicazioni più consone ed essere valorizzata, invece indirettamente è stata penalizzata. Riesce ad emergere in questa triste concertazione il bravo coro locale istruito da Claudio Marino Moretti.
Il cast ha subito anch'esso una penalizzazione dal direttore, ma purtroppo ha espresso limiti propri. Carmela Remigio è decisamente fuori ruolo nell'interpretare la sacerdotessa Norma, per una voce troppo leggera, una scansione interpretativa che non le permette di superare i passi drammatici, e una zona grave limitata, quando doverosamente adoperata suona forzata. Bisogna ammettere che la grinta della cantante c'era tutta, ma il passo era oltre le sue capacità, c'è da augurarsi che non prosegua su questa strada per non compromettere un materiale più che apprezzabile.
Gregory Kunde è un caso strano. Senza ripercorrere la sua vicenda artistica occorre ricordare che oggi canta tutto, da Africana a Pagliacci, da Britten a Trovatore. Non poteva mancare un ruolo come Pollione, cantato dai passati migliori tenori. Il fatto di aver cambiato vocalità e di avere ancora un registro acuto ragguardevole, non è sufficiente per affermare che sia il miglior tenore del momento, semmai uno dei pochi che riesce a sostenere una recita. Innanzitutto, la voce è dura, secca ed inespressiva, totalmente assente il colore, ma lui è dotato di carisma e qualche accento nei limiti lo esibisce. Non è sicuramente imbarazzato dalla scrittura, ma canta tutto uguale, che sia il duetto amoroso con Adalgisa, o il drammatico scontro con Norma nel finale, la differenza è impercettibile. Interpretando un ruolo che fu composto per Donzelli, gli riconosciamo un plauso per aver eseguito delle variazioni nella cabaletta, e una discreta tenuta ma null'altro.
Veronica Simeoni con Adalgisa centra uno dei suoi migliori personaggi. Più volte mi sono espresso su questa cantante affermando che vero mezzosoprano non è, pertanto in un ruolo che originariamente fu affidato sempre a soprani che si differenziavano vocalmente dalla protagonista, lei trova una corda a mio avviso molto più consona rispetto alle recenti Azucene e alle future Favorite. Inoltre, la cantante è dotata di un ottimo gusto interpretativo, un fraseggio eloquente e per niente imbarazzata dai passi d'agilità, cui si aggiunge un'innata delicatezza d'accento in particolare nell'aria di sortita. Mediocre il basso che interpretava Oroveso, Dmitry Beloselskiy, il quale seppur dotato di voce importante è stato alquanto ruvido. Bravi Emanuele Giannino nel breve ruolo di Flavio e Anna Bordigon in quello di Clotilde.
Successo al termine con molti applausi per i cantanti, mescolati con qualche dissenso per il direttore.
Lukas Franceschini
3/6/2015
Le foto del servizio sono di Michele Crosera.
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