Il volto e il timbro ovvero l'anima di Norma
A Norimberga un Bellini fuori dagli schemi
La storia interpretativa dei grandi melodrammi è anche storia di discutibili licenze e fertili infedeltà: Il trovatore non sarebbe l'opera più “tenorecentrica” del nostro Ottocento senza quel Do della “Pira” che Verdi mai si sognò di scrivere, né si può tentare una mappatura dei Barbieri di Siviglia prescindendo da certe storiche Rosine soprano leggero che, in punto di diritto, rappresentano un arbitrio assoluto. Norma invece ha dovuto convivere, più che con una tradizione adulterata, con due polarità opposte: senza che si sia accreditata una lectio più autentica dell'altra e lasciando ai flussi della Storia, o più semplicemente all'andirivieni dei gusti del pubblico, la preminenza di questo o quell'elemento.
Sul fronte soggettivo ciascuno avrà poi la “sua” Norma, ma oggettivamente è arduo stabilire se Bellini abbia concepito una partitura più occhieggiante al classicismo o più proiettata nel romanticismo; se l'elemento patetico sia accessorio o abbia lo stesso peso di quello tragico; se si tratti di un frutto della civiltà belcantistica o di un dramma musicale postgluckiano, una personalissima esegesi rossiniana o una piattaforma che porterà a Wagner. Le grandi interpreti (e i grandi direttori) hanno dato risposte contrastanti, ma se ascoltiamo l'armena Hrachuhí Bassénz, protagonista di questa nuova produzione all'Opera di Norimberga, e la confrontiamo con le odierne Norme di riferimento – la Bartoli, la Gruberova, la Devia – certo si avverte qualcosa di deficitario nei tre mostri sacri succitati.
Per la prima potrà trattarsi di limiti intrinseci del proprio organo vocale, per la seconda d'ineludibili ragioni anagrafiche, per la terza d'una certa rigidità temperamentale: ma sta di fatto che rispetto a loro il soprano armeno, oggi lanciata nel mercato internazionale dopo un proficuo apprendistato sul palcoscenico norimberghese, ha dalla sua quel phisique du rôle canoro che è il timbro. Un colore scuro, sensuale ma severo, drammatico ma non tagliente caratterizza la vocalità della Bassénz (così come il suo volto restituisce queste medesime caratteristiche): l'anima di Norma è tutta lì, in quella timbrica che già da sola ritrae gran parte del personaggio. Sebbene in alto il canto appaia meno scorrevole rispetto alla regione centro-grave, la forza di penetrazione è sempre cospicua e la fraseggiatrice abbina l'intensità alla singolarità: come quel «In mia man alfin tu sei» più mormorato che altisonante, quasi fosse una resa dei conti con se stessa piuttosto che con Pollione, e che sfocia in una sorta di ultima, inconfessata dichiarazione d'amore. Se la pratica teatrale ci ha abituati a dicotomie cristallizzate – Norma classica o romantica, Norma sacerdotessa o guerriera, Norma-Medea o Norma-donna – ecco un soprano che forse non arriva alla quadratura del cerchio, ma fa convivere al meglio tutte queste sollecitazioni.
Sostanzialmente corretta ma poco attraente sul piano fonico, e di non spiccata personalità interpretativa, l'Adalgisa di Ida Aldrian appare sacrificata dalla dialettica con una simile protagonista; laddove invece Joska Lehtinen – con la sua vocalità limpida e verticale da tenore lirico spinto “di linea”, anziché massiccia e orizzontale da baritenore epicizzante – è un Pollione in produttivo contrasto con la Norma della Bassénz. E anche Alexey Birkus porta il suo contributo per una raffigurazione canora congrua e fuori dagli schemi: non un druido grave e ieratico, ma un Oroveso giovanile di voce sonora e relativamente chiara, da autentico basso cantante.
La messinscena di Stéphane Braunschweig corrobora questa tensione verso un Bellini moderno, fedele più allo spirito che alla lettera della drammaturgia, impaginando una Norma in abiti contemporanei ma senza forzature e, anzi, di logica stringente, come dimostra la perfetta naturalezza con cui i cantanti s'immergono in tale contesto. Lo scontro tra romani conquistatori e galli sotto il giogo dell'invasore, qui, si trasforma nella lotta di un popolo contadino (ma tra i resistenti non mancano barbe e occhiali da intellettuale, i coristi vengono pennellati uno a uno) tagliato fuori dalla Storia: siamo in un brullo mondo rurale che potrebbe evocare perenni lotte intestine dei Balcani, ma anche un hinterland siciliano arido e spoglio, ignaro della brezza marina, che al Cigno di Catania non sarebbe dispiaciuto. Braunschweig si esprime per segni (la quercia d'Irminsul ricondotta a una piantina), isola i personaggi nei momenti più intimi grazie al sapiente uso d'un velario nero, sottolinea l'eternità di certi meccanismi psicologici (i figli – i due pargoletti sono in scena più spesso di quanto preveda il libretto – come arma di reciproco ricatto per i genitori separati), rinuncia deliberatamente alla dimensione archetipica per plasmare – anche grazie alla fisicità della Bassénz – una veggente in tailleur di tormentata sensualità. Convincono meno certi innesti coreografici: ma è un peccato veniale.
A mantenersi sui binari di un'aproblematica, ancorché ondivaga tradizione (i tempi scattanti della Sinfonia sembrano guardare a certo Bellini barocchizzato oggi di moda, ma i tagli dei “da capo” sono in stile anni Cinquanta) è invece la direzione di Volker Hiemeyer, assistente musicale all'Opera di Norimberga che, nella recita di cui si dà conto, ha preso il posto del concertatore titolare. Pazienza: la qualità degli strumentisti del teatro bavarese – ottoni in primo piano, e senza bisogno di soverchio clangore – assicurano comunque un suono sempre appagante.
Paolo Patrizi
20/5/2017
La foto del servizio è di Jutta Missbach.
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