Gli umani s'impegnano tragicamente a non cambiare
Un albero dalla chioma azzurra su un piano inclinato: è creatura di Mario Schifano, mitico “maledetto” della pop art e dopotutto quello stesso albero ricorda non poco Frutti acerbi dell'artista scomparso nel 1998 poco più che sessantenne. Pure, per noi inevitabilmente segnati e prosciugati dall'Assurdo di Samuel Beckett, è impossibile non pensare anche all'albero solitario e riarso di Aspettando Godot. La lunare “casta diva” è ancora sul fondo, azzurra lei pure ma “impressionata” di bianco. Più avanti, sarà ingabbiata in una sorta di quadro finestra come a denunciarne una sorta di divina “inadempienza” nonostante le preghiere ma qui, in apertura, è pronta ad essere evocata ed invocata dalla sacerdotessa, druida e perciò rea di liaison dangereuse e inevitabilmente letale con il nemico romano Pollione, proconsole nelle Gallie.
Vincenzo Bellini ed il Teatro Verdi di Trieste sono annodati da un intenso, singolare legame di nascita. L'uno e l'altro, infatti, sono venuti alla luce nel 1801 ed oggi, “officiante” la Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi, il legame si rinnova fino ad ardere sul rogo di Norma diretta con mano felicissima da Fabrizio Maria Carminati, protagonista una sicura dispensatrice di nuovi prodigi, Marina Rebeka, che nel ruolo debutta strepitosamente confermandosi altresì esponente di punta della “primavera” culturale ed artistica del suo paese, la Lettonia, che offre talenti ormai conclamati, dall'immaginifico, dotatissimo Alvis Hermanis all'eccentrico, vivacissimo Zagars Andrejs, direttore del Teatro dell'Opera di Riga.
La regia dell'allestimento risale ai primi Anni Novanta ed è firmata da Federico Tiezzi ma, in questa sede, è ripresa da Oscar Cecchi, su scene di Piero Paolo Bisleri e Mario Schifano e costumi di Giovanna Buzzi.
Come Julia nella Vestale di Jouy e Spontini, anche Norma l'infanticide è sacerdotessa spergiura ai voti per amore e, come Velléda del dramma di Chauteaubriand, Les Martyrs, Norma perde il senno perciò, a buon diritto, Tiezzi la ritiene figlia legittima più della nuova tragodìa francese alla Racine che di altri e più antichi “padri” drammaturgici e letterari.
E tuttavia in questa sede – come da ripresa curata da Oscar Cecchi – il regista le ridà fiato collocandola tra scampoli di storia diversa eppure tragicamente simile a se stessa se si parla di potere, di voti infranti e di restaurate alleanze. Come dire che gli umani s'impegnano tragicamente a non cambiare.
Ed ecco, allora, che l'altare-sarcofago austero e senza tempo, torreggiante al centro della scena, è “interrotto”, a destra, da resti di colonne e capitelli d'una gloria imperiale già febbricitante di decadenza. Né tuniche né stole – salvo le vistose vesti, regali e atemporali, assegnate alla sacerdotessa mentre le altre vestali sono quasi madonnine in écru. Poi, da un canto, i soldati di Pollione calzano pastrani e calzoni bianchi in forte odore d'armata napoleonica e la stessa Adalgisa sta a metà tra Paolina Bonaparte e Tatiana di Onegin; dall'altro, i figlioletti di Norma hanno abitini e trastulli di primo Novecento.
E tuttavia – a parte tableau vivant di scene belliche ed altri moti mimetici in cui il coro (diretto da Fulvio Fogliazza) come spesso accade in non pochi teatri italiani, non brilla per educazione e credibilità teatrale – l'autentica, la più credibile azione drammatica resta scritta nella voce di Marina Rebeka, “cantattrice” dalla carnalità sublime e terragna che, senza per forza dover essere rabdomanti d'eredi ed eredità, l'accosta non poco a Maria Callas.
Della “divina” Maria – Norma per antonomasia – il soprano lettone rammenta il modo d'affrontare i tre piani espressivi: i recitativi ampi, teatrali, sicuramente vicini al fraseggio della tragedia raciniana; i cantabili, nonché la “melodia lunga, lunga, lunga” secondo Verdi, di linea ferma ed ampia; i passi di forza in cui anche Marina-Norma, a suo modo, si fa furente e prodiga di scintille. E la dizione curatissima e spiegata che certamente avrebbe rallegrato non poco il maestro Giuseppe Di Stefano.
Bene fa la luna, quindi, nella lettura di Tiezzi-Cecchi, a levarsi per lasciarle completamente la scena: trentacinquenne e già in volo per il “Met” di New York, Marina Rebeka è qualcuno con cui la storia dell'opera in musica degli anni a venire dovrà necessariamente (e fortunatamente) fare i conti.
Intorno a lei, un cast d'ordinanza – nella migliore delle ipotesi.
Pollione è lontano dall'essere chimica teatrale di meschinità e ravvedimento: Sergio Escobar è piuttosto un bel pezzo di manzo spesso animato da emissioni vocali un tantino inconsulte; a tratti non centrata, l'Adalgisa di Anna Goryachova risulta più felice nel catturante “Sì, fino all'ore estreme” con Norma, duetto del II atto; Oroveso (Andrea Comelli) si muove, non si sa come né perché, come un cieco indovino, una sorta di Tiresia con vaghe sembianze di Rasputin. Ben figurano Motoharu Takei (Flavio), Kaoruko Kambe (Clotilde).
Se Bellini è per i catanesi (e non solo) prezioso patrimonio d'esportazione, Fabrizio Maria Carminati è talmente raro ed autorevole nel suo rigore di concertazione e “trattamento” del belcanto, da considerarsi bene da corteggiare all'infinito. In questa sede, il suo finissimo e incessante lavoro alla partitura e agli artisti in “buca” del Teatro Verdi, il maestro Carminati ha reso accettabile una compagine orchestrale che, hic et nunc, non mostra punte d'eccellenza.
Emozione e partecipazione sono in ogni modo dovute, alla fine – e, ancor prima, con applausi a scena aperta certamente destinati alla protagonista – per una produzione che passa comunque la ribalta. Quasi come quell'albero di Schifano che, a un sospiro dalla fine, diventa una cosa sola con il rogo, spicchio di vermiglio fondale di vita pronto a convertirsi in dorata cenere di morte.
Carmelita Celi
22/2/2016
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