Cronaca di un'inadeguatezza annunciata
Se' nummari
di Salvatore Rizzo
Per favore, non fatene un instant play.
Se questo è Teatro, non rovistate tra le pagine della cronaca alla ricerca dell'ultima tragedia “due camere e cucina”, non tentate a tutti i costi di riannodare i fili della trama alla vita vera dell'autore. Non cercate ragioni, non trovate risposte.
Non è un biopic, il teatro. Il teatro è trasfigurazione.
E se il palcoscenico riesce ancora ad essere téatron - punto di osservazione ma anche di discussione della nostra esistenza - allora il particolare, in scena, diventa universale di diritto e di dovere.
E ciò accade eccome in Se' nummari, sommesso e deflagrante atto unico di Salvatore Rizzo – in un allestimento più che mai accorto di Vincenzo Pirrotta che ne firma regìa, scene e costumi e con due protagonisti dirompenti e misuratissimi, Filippo Luna e Valeria Contadino, al Musco di Catania per il Teatro Stabile etneo che se ne intesta l'operazione che, da sola, varrebbe forse l'intera stagione, sicuramente quella dell' “Isola del Teatro” ideata appositamente per la rinnovata e storica sala di Via Umberto.
Tri, unnici, vintitrì, cinquantasei, sittanta, ottantaquattru…
Vita mè, vita mè…
Da un canto, dunque, i Se' nummari che fruttano ben “seicentovintitrìmiliuna” e (dicono) ti cambiano la vita, in quale direzione, poi, se in bene o in male, è ancora allo studio degli esperti.
Dall'altro, Tommaso, figlio del danno perché affetto da tetraplegia spastica che per Orazio ed Anna è un masso sul cuore e nella mente, è parete invalicabile più del Carcere dei Piombi.
Nella scena voluta da Pirrotta, è tempesta ordinata di tulle bianco, quasi un vomito bianchissimo e trasparente d'una gigantesca culla malata che incombe su una domesticità soffocante e tetra. Come tetri sono i tristi “vestiti di casa”: in canottiera e barba lunga, Orazio e Anna indossa sottana bianca come una seconda pelle, a metà tra sottoveste e camicia di una notte che non finisce mai.
Ma prima che a dare i nùmmari siano i protagonisti – spasmodici, compulsivi, rabbiosi, “tossici” – le loro voci inseguono gli spettatori a sipario ancora chiuso, la bocca piena di quel “miracolo” (loro che, quando erano ancora due “puri”, ne avrebbero desiderato un altro, di miracolo) e i denti che masticano e rimasticano i numeri “salva-vita”.
Pure, non è un dramma sulla dipendenza da gioco d'azzardo o sulla psicopatologia quotidiana da Bingo, Se' nummari. Tantomeno è teatro-documento sulla “diversità” del disabile, un martirio inflitto primi tra tutti a loro, a papà e mamma, che con pazienza di Giobbe e sopportazione di Cristo, diventano qui una semovente, carnale “Pietà di Michelangelo”, una mimesi che Pirrotta affida loro prima che giungano, implacabili, le parole di Rizzo.
Ma no, nossignore. Se' nummari è piuttosto cronaca di inadeguatezza annunciata, è tragedia di “spostati” perché incapaci di affrontare il massimo della pena – Tommaso - ma anche il massimo della cosiddetta felicità, i se' nùmmari.
E spincila ‘sta carrozzina, spincila. Chi fà? Unn'hai chiù forza ne' vrazza? Unn'haiu chiù forza… Comu unn'haiu chiù forza? ‘na jumenta ha statu siempri… ‘no cori, Orà, nto cori, unn'haiu chiù forza, l'haiu comu ‘u ghiacciu ‘stu cori, comu petra l'haiu…
E in una realtà che non si vede – che non vogliono vedere Orazio, Anna e gli occhi “piatùsi” degli altri specialmente – la carrozzella, in realtà, è un piedistallo d'ospedale di quelli che di solito reggono flebo e arti fratturati da cui, invece, pencolano pezzi di carne. Una macelleria di corpo e spirito che è pietoso “riassunto” del ragazzino martoriato.
Ma c'è stato un tempo migliore di questo, prima?
Filippo Luna-Orazio lo rievoca con voce terragna, bassissima, come di corde vocali fradicie di lacrime e urla: Vieru è, tu ricordi ca fu a prima vota ca ti vitti, ‘o campettu? Na saitta era, un mi firmava nuddu. Biddicchiu, ca mi taliasti subitu…
Più avanti, invece, Valeria Contadino-Anna, con aria disfatta e quel fare saputo, tragicamente rassicurante che solo le consumate femmine-madri non perdono mai, parla del figlio, di una sua caduta e della ferita che brucia. Ma forse quel piccolo incidente è toccato in sorte anche ad Orazio che del fetu ri spitali ha orrore e per questo lei li mette sullo stesso piano, padre e figlio, come fossero della stessa età giacché, come spesso accade nelle migliori famiglie, da lunga pezza lei è madre due volte. Di figlio e marito.
Ma tra un “fortunato” futuro che minaccia felicità (mi)sconosciute ed un passato che non passa, ecco la giaculatoria dell'ineluttabilità: la Contadino, praefica imbambolata, la ripete all'infinito. Maniacale, surreale eppure così verosimilmente già sentita: Signora purtroppo c'è poco da fare, anzi niente. Tetraplegia spastica. Bisogna cercare di fargli vivere una vita al meglio possibile. E com'è una vita normale pi ‘na criaturedda accussì cumminata? Com'è? Ca a matina una u chiama e ci grira : Sùsiti ca ti n'ha ghiri a scola, sùsiti ca o latteecafè è pronto, sùsiti e và lavati, sùsiti, sùsit, sùsiti…
Che fare? O meglio, chi campàmu a fari?
Già, i nùmmari. Sembrano quasi il prequel ed il sequel della stessa catastrofe.
Ciò che è fatto non può essere disfatto. E come piccoli, spauriti, esasperati Macbeth, Orazio ed Anna programmano il massacro: per godersi appieno la vincita dei 623 milioni di euro bisogna cancellare Tommaso. Ma che sembri un incidente.
Nessuna sentinella da ubriacare. E per la vittima sacrificale, che è già dolorosamente arrivato ai diciott'anni, non vino ma ansiolitici: I gucci ci rasti? Ci resi i gucci, ci resi. E quantu ci nni rasti? Assà ci nni resi, assà. La vista penosa e paurosa comincia prima del massacro: Certu ca dormi, unnu viri tu ca sta durmiennu? Un ti preoccupari ca ‘a strata gritta è a st'ura…Chi fa, ti scanti?
E nessun altro da imbrattare di sangue d'altri, quello sarà tutto per loro due, per Orazio e suo figlio. Tutto perché e purché sembri un incidente: Pìgghialu, amunì, càlati e pìgghialu, afferralu bellu forti e cafudda… Ne' ‘ammi, supra ‘e vrazza…Chiossai iu ca sugnu màsculu ca tu chi ssi fìmmina…Ci hanu a cririri ca fu un incidenti…
E uno splatter asciutto, né sangue né sudori né umori d'alcun tipo, solo un tragico esodo alla maniera dei greci che Filippo Luna tuona in crescendo, furia beluina e un raziocinio terribile, senz'appello. Si percuote il petto fino a sfinirsi e finirsi. Poi, alza la testa, Luna, completamente trasformato, sopito, pronto alla menzogna nuova per una nuova vita: Marascià, accuminciò a fari comu un fuoddi…
Prima, però, una sorta di deus ex machina da modernariato: cala da un cielo crudele, è un registratore d'antan e ad Anna “ricorda” il pianto di un neonato già “strano”, dolente, distorto, soffocato. E poi, un canto di morte – Amor mio di Mina – che lei, coefora e assassina, intona prima del misfatto.
Accanto a Se' nùmmari almeno altri cinque, tante quante le forze creative che di questi 50 minuti fanno una scheggia di teatro urticante e catartico.
La partitura musicale di Giacomo Cuticchio così opportunamente affrancata dalla lingua siciliana e dunque fuori da folk saputo o di genere ma composta da più generi, dal minimalismo melodico dell'ultima parte agli archi imperiosi e quasi bartokiani dell'inizio.
La scrittura di Salvatore Rizzo, necessaria perciò dolorosa e liberatoria, densa di sensibilità debordante e composta, trova nella riscrittura scenica di Vincenzo Pirrotta una resa assolutamente accorta e poetica. Non solo drammaturgo ed attore “narrattore” di grande pregio, Pirrotta ha anche il merito non comune (e ne vedemmo ottimi risultati nelle “sue” Donne al Parlamento l'anno scorso al Teatro antico di Siracusa) di saper governare i suoi interpreti con un rigore che non conosce pause né concessioni a gigionerie o sbavature, si tratti di mélo o di tragicomico.
Last e tuttaltro che least, loro – Filippo Luna e Valeria Contadino – carne e sangue di una tragodìa domestica e cosmica.
Diversi per temperamento e storia artistica – la maturità di Filippo è sicuramente passata per altre e “alte” stagioni, indimenticabili Le mille bolle blu ancora di Salvatore Rizzo; più giovane è il percorso artistico di Valeria che da questa bella prova d'attrice è promossa a felici, future scommesse – eppure meravigliosamente e talentosamente affratellati da un Ade che non fa sconti. E che, al contrario, bussa con piede caprino e insistente: Semu sempri ‘ntempu, Annò, sempri ‘n tempu semu…
Carmelita Celi 12/5/2014
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