Adriana Mater: l'anelito verso la grazia 
Troppo spesso concepiamo l'esperienza operistica come rito consolidato, basato su un repertorio ormai acquisito e immutabile, dimenticando come il teatro musicale possa essere vivo e incidere realmente sulle nostre vite. Scuotere la pigrizia del pubblico italico è un compito arduo che il Teatro dell'Opera della Capitale sta portando avanti con impegno e dedizione. La sala piena solo a metà non deve far demordere da quello che è lo scopo principale delle nostre istituzioni liriche: pensare una programmazione che non escluda la contemporaneità. Ogni nuovo lavoro entra in contatto con la tradizione e la modifica, fornendoci inediti strumenti per guardare al passato illuminando il nostro presente. Pensiamo ad Adriana Mater, l'opera più ampia e ambiziosa della compositrice finlandese Kaija Saariaho, scomparsa nel 2023. Un lavoro che vide la luce nel 2006 e che oggi, a distanza di venti anni dalla sua prima incarnazione, ci appare di sconcertante attualità. La drammaturgia sembra guardare ad alcuni modelli oratoriali del passato, primo fra tutti Stravinskij, ma non manca del tutto di azione. Il testo del giornalista e scrittore libanese Amin Maalouf traduce la personale esperienza traumatica della guerra in una esplorazione dell'oscurità che minaccia la vita umana. In tal senso non è importante sapere se la suggestione primaria derivò dalla memoria degli allora recenti conflitti balcanici. La storia di Adriana, stuprata da un soldato che ella pure conosce, e della decisione di tenere comunque il frutto della violenza, potrebbe aver luogo in qualsiasi scenario conflittuale. Giunto all'età di diciassette anni, il giovane Yonas viene a sapere che suo padre Tsargo è vivo, e che i suoi familiari gli hanno mentito. Il momento in cui il desiderio di vendetta si stempera in una umanissima pietà di fronte al genitore, un uomo ormai fragile e cieco, totalmente diverso da colui il quale operò l'atto di violenza, è il più toccante della partitura. Spezzare il cerchio della brutalità è l'unica salvezza. Per questo Adriana, rivolgendosi al figlio, afferma che forse suo padre meritava davvero di morire, ma che lui non meritava di diventare un assassino. L'assillante interrogativo riguardo la natura del bimbo che ella portava in grembo, frutto di violenza e quindi minacciato dal male, viene risolto nella decisione finale; nella rinuncia alla vendetta risiede l'autentica salvezza. Questo è il contenuto etico che la Saariaho vuole trasmettere allo spettatore, un messaggio tanto più importante nel mondo di oggi, scosso da conflitti che appaiono di difficile risoluzione proprio perché alimentati da un odio che non concepisce pietà. Riguardo la scrittura musicale, il primo atto ci è parso un poco uniforme nell'orchestrazione costantemente drammatica e nel canto declamato a piena voce. I momenti migliori si trovano quando la cruda realtà cede il passo al sogno, nelle sequenze oniriche ammantate di mistero non immemori della tradizione musicale francese. Nel sesto quadro, il più bello a giudizio di chi scrive insieme ad alcuni momenti del settimo, il tessuto sonoro si placa, distendendosi in una sorta di rituale scandito dal suono della campana e dal tremolo degli archi. Il confronto fra padre e figlio si illumina di accenti toccanti. Quando Tsargo si alza dal proprio misero giaciglio, rivelando di essere cieco, il dramma raggiunge esiti da tragedia greca. La presenza del coro, oltre a proiettare l'ombra del già citato Stravinskij, delinea atmosfere arcane, che affondano nella notte dei tempi. Da Caino ad Abele sino ai giorni nostri la storia dell'umanità è costellata di orrori. Sta a noi cercare di deviare da questo corso.
Peter Sellars, al quale l'opera è dedicata, era presente in sala. La sua regia, tutta giocata sulla recitazione, si è arricchita di dettagli rispetto al suo concepimento originario. Ne risulta uno spettacolo dall'impatto quasi filmico nel dialogo continuo fra gestualità ed espressione. Le luci al neon, dalle frequenti variazioni cromatiche, appaiono come trapezi da circo ai quali è sospesa un'umanità fragile e vulnerabile. L'orchestra e il coro sono posizionati sul palco, mentre i cantanti agiscono su due piattaforme poste sul proscenio. Un allestimento minimale, privo di inutili orpelli, nel quale l'unico oggetto scenico è il mitra a materializzare la violenza. Molto curata l'esecuzione musicale. Ernest Martínez Izquierdo mostra grande padronanza della partitura e delle sue alchimie sonore. L'Orchestra del teatro risponde con precisione e aderenza alla volontà direttoriale. Bravi gli interpreti, con un plauso particolare all'Adriana emotivamente toccante di Fleur Barron. Vocalmente ottima anche la Refka di Axelle Fanyo, mentre Christopher Purves riesce nell'arduo compito di mostrare il mutamento che interessa l'anima di Tsargo, dall'arroganza iniziale, pur venata di umanità, alla disperata rassegnazione. Buono lo Yonas di Nicholas Phan, con qualche forzatura in zona acuta. Applausi convinti da parte del pubblico in sala che, in occasione della prima replica dell'undici ottobre, non era purtroppo molto numeroso. Una registrazione dell'opera con il medesimo cast è stata effettuata dalla Deutsche Grammophon in occasione delle recite dirette da Esa-Pekka Salonen alla guida della San Francisco Symphony nel giugno del 2023, pochi giorni dopo la scomparsa di Kaija Saariaho. Riccardo Cenci
17/10/2025
La foto del servizio è di Fabrizio Sansoni.
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