Toc toc – Chi è? – Tuo marito!
Dopo l'apertura in grande stile con La juive di Halévy, la stagione lirica di Torino continua la sua esplorazione del repertorio francese con Un mari à la porte di Jacques Offenbach. Questa frizzante operetta in un atto debuttò nel 1859 al Théâtre des Bouffes Parisiens, fondato quattro anni prima proprio da Offenbach, e si avvale del libretto di Alfred Delacour (nom de plume di Pierre-Alfred Lartigue) e Léon Morand. Con questo allestimento debutta ora anche nel capoluogo piemontese sul palcoscenico del Piccolo Regio Puccini.
La piacevole composizione risolve in meno di un'ora una situazione che nella sua buffa paradossalità offre l'occasione per mettere alla berlina sia cliché di opere serie, sia usi e costumi dell'alta borghesia del Secondo Impero, sorridendo sotto la veletta dell'ironia e dell'autoironia, dato che Offenbach si burla di se stesso rispecchiandosi del protagonista. Verso mezzanotte, il compositore di operette – guarda caso – Florestan Ducroquet (già il nome rimanda pretenziosamente al Fidelio) precipita per un camino nel boudoir di una signora per sfuggire a un agente giudiziario. Suzanne, la padrona di casa, irritata col marito Henri che il primo giorno di nozze non azzecca il colore dei suoi occhi e le nega di leggere una lettera, entra nel boudoir con l'amica Rosita e, sorda alle lodi che quest'ultima ne tesse, decide di chiudere il neosposo fuori dalla porta. Ma le due signore, che nel frattempo hanno scoperto Florestan, restano bloccate dentro la stanza perché il simpaticone getta la chiave in giardino. Si scopre che Henri è l'ufficiale giudiziario in traccia di Florestan. Come scappare? Gettarsi dalla finestra è impossibile, essendo al terzo piano. Al mattino, quando è chiaro che Henri è armato e ha recuperato la chiave, tutto sembra perduto; ma, colpo di scena, dalla finestra penzola una corda. Dopo aver frettolosamente chiesto a Rosita di sposarlo, il compositore ci si arrampica e se la svigna, lasciando Henri con un palmo di naso.
Non unico elemento improbabile della vicenda, la corda che appare dal nulla canzona i vari e forse ancor più improbabili deus ex machina dell'opera seria. Ma più da vicino, vi è la canzonatura delle convenzioni sociali, della morale borghese nascosta nelle pieghe del libretto. A cominciare dal gabinetto “perbene” della signora Suzanne, che Claudia Boasso, responsabile delle scene, arreda con l'estro di una collezionista d'arte, con pareti tappezzate di quadri, e quadri anche di un certo valore, se quello che si divertono ad appendere lei e Florestan fosse un Renoir autentico; in terra vari tappeti sovrapposti, tavolini, tovaglie di broccato rosso, un servizio da tè in porcellana, ninnoli, una pianta, un baule… un arredamento claustrofobico, di chi soffre l'horror vacui, la disposofobia. E a suo modo adattissimo, sul piccolo palcoscenico del Puccini, per rappresentare non solo la stanza di Suzanne, ma anche il suo ambiente, il suo ceto, opprimente di regole e attento al loro rispetto. Il vestito da sposa di Suzanne, ideazione come per gli altri costumi di Laura Viglione, è vaporoso, curato e ricco di particolari; l'abito di società di Rosita, in seta malva e nera, con un gran fiocco sulla schiena, che ricorda le duchesse di Boldini, e la lavallière di Florestan, simbolo perfetto dell'artista bohèmien un po' scapestrato, sono adattissimi per i loro personaggi, così come la mise e la tuba nera di Henri, che col trucco e i baffi alla Napoleone III allude all'ordine e al rigore di chi non ha molta fantasia. Ma oltre al particolare, colpisce l'insieme e il gusto cromatico con cui scene e costumi si fondono. Per non parlare dell'accurato lavoro illuminotecnico di Andrea Rizzitelli, che modula ad arte le luci seguendo quasi il sentimento della vicenda. La supervisione di Antonio Stallone, direttore dell'allestimento, ha infine garantito l'ottima riuscita dello spettacolo.
Florestan è qui Pawel Zak, tenore dal timbro chiaro, agile nella voce come disinvolto sulla scena, a suo agio nel ruolo, di volume contenuto ma adatto sia al personaggio, sia alle dimensioni della sala. Unico neo, ma di pertinenza della costumista: perché, se è appena rotolato giù da un camino, i vestiti sono senza traccia di fuliggine? Ksenia Chubunova è Suzanne: già apprezzata in passato in altri ruoli sulla piazza torinese (indimenticabile la sua Ljubaša ne La sposa dello zar della stagione scorsa), abbiglia di grazia sorniona ma anche di gaia effervescenza sulla scena la sua sposina, donandole quel timbro caldo e fumé che la contraddistingue e che le permette di mettere a fuoco sia ruoli più drammatici, sia più leggeri come questo. Amélie Hois disimpegna la sua Rosita con la consueta souplesse, incarnando con l'arte scenica una sorta di Musetta più altoborghese; con la sua voce aerea e solare da usignolo, le emozioni di trilli e gruppetti che regala durante l'unica aria solista dell'opera, la valse tyrolienne, fanno dimenticare le lievi fragilità imputabili al permanere della sua indisposizione che annuncia lo speaker a inizio recita (la penultima, del 13 ottobre 2023). Il trio di artisti del Regio Ensemble è completato dal baritono Matteo Mollica, il mari à la porte Henri Martel, che per i suoi interventi ha giusto lo spazio dietro la porta a bordo palco. Interventi che riescono bene in virtù del timbro vibrante, della voce robusta e della recitazione un po' sopra le righe, volutamente caricaturale. Per tutti e quattro dizione e fraseggio non sempre sono ottimali, data l'estrazione plurilingue; ma c'est pas grave, le battute si riescono a cogliere grazie agli schermi a lato del palcoscenico, cui sarebbe bene aumentare la grandezza del carattere per permettere anche a chi non ha dodici decimi in ultima fila di leggere senza sforzo. Riccardo Bisatti, anch'egli del Regio Ensemble, guida gli elementi dell'Orchestra del Regio con rodata bravura e con mano ferma, senza lasciarsi andare ad eccessi di vivacità che qui probabilmente non avrebbero sfigurato, dato il contesto leggero: l'Ouverture, a ritmo di valzer, e il valzer che poco dopo si sviluppa sono condotti con molto buon garbo, quasi con sobrietà (si potrebbe dire “alla torinese”); e si può anche capire, dato che si tratta di una festa elegante, da salotto, cui alludono le silhouette dietro la tenda; meno comprensibile è la stessa sobrietà nei vari parapiglia dell'opera: un po' più di istrionismo avrebbe dinamizzato la recita, che può contare sia sull'ottima preparazione degli orchestrali, sia sul loro numero ridotto (nemmeno una ventina), caratteristica che garantisce scatto e agilità a una compagine quasi solistica. A tal proposito, si segnala che, poiché ci è pervenuta soltanto la versione per canto e pianoforte, l'orchestrazione è stata messa a punto dal maestro Alessandro Palumbo, che ha adattato l'organico al Puccini onde calibrare al meglio gli spazi e i volumi sonori.
Christian Speranza
17/10/2023
Le foto del servizio sono di Andrea Macchia.
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