I Lombardi in bianco e nero
I Lombardi bianconeri... e non c'entra la fede calcistica… I Lombardi… in bianco e nero sono quelli …alla prima crociata voluti da Pier Luigi Pizzi, che per il Festival Verdi 2023 firma un nuovo spettacolo di cui è regista, scenografo, costumista e video designer. Spettacolo moderno, che declina la modernità nell'utilizzo di tecnologie volte a innovare la messinscena e permettere al novantatreenne (!) Pizzi di esplicitare un gusto raffinato di linee, forme e colori, in parte debitore della sua formazione di architetto.
Essenzialità è la parola d'ordine. Riferisco della recita di venerdì 29 settembre 2023. All'arrivo in sala, al Teatro Regio di Parma, il palcoscenico è aperto, nudo, tutto nero, eccezion fatta per una piattaforma rotonda bianca al centro, un tavolo e qualche sgabello, anch'essi neri, essenziali e scarni, ridotti al loro scheletro, sulla destra. Fanno pensare al geometrico “cubo impossibile” di escheriana memoria. Nel silenzio generale, Lidia Fridman, che presta sia la voce a Giselda, sia la sua alta e armoniosa figura alla plasticità delle scene, segue con un braccio il comparire di un taglio verticale nero sullo sfondo di un bianco accecante. Omaggio a Fontana? Non si sa. Ma poi perché? Non importa, colpisce, e va bene così, come l'arrivo in scena della violinista Mihaela Costea, salutata affettuosamente dalla stessa Fridman, della flautista Giulia Carlutti e del clarinettista Fabrizio Fadda, che siedono sugli sgabelli e appoggiano gli strumenti sul tavolo. Solo adesso l'orchestra in buca si accorda ed entra il direttore: Francesco Lanzillotta, reduce da un grave incidente motociclistico, si aiuta con le grucce e dirige da seduto: per chi, come il sottoscritto, ha mosso i primi passi nel mondo della musica dal vivo con Sir Jeffrey Tate, che a causa della spina bifida si muoveva col bastone e dirigeva sempre da seduto, non è una novità, ma un motivo in più di ammirazione; tanto più che, sia detto subito, la direzione di Lanzillotta è energica, vigorosa, a tratti anche gagliarda, specialmente nei frequenti cori marziali, di battaglia, dell'autentico Verdi prima maniera, resi con incalzante pregnanza, ma anche attenta e precisa nelle scene più delicate, seguendo abilmente le intenzioni del canto e la “parola scenica” in una perfetta unione di intenti col regista. La concertazione, poi, è di mirifico equilibrio.
Dopo questo inizio inconsueto, la piazza di Sant'Ambrogio è resa in modo più tradizionale con una proiezione in bianco e nero. Cupi sono i costumi dei Lombardi, e tali resteranno per il resto della recita: tutti in nero, in grigio, Arvino e Pagano in tunica marrone scuro, talvolta incappucciati come la Morte del Settimo Sigillo, rischiarati dal bianco della scenografia dietro. Al «Coro interno di claustrali» compare, su sfondo nero, il grigio lucente delle canne d'organo, il cui suono accompagna il canto, mentre le vergini cantano attorno a Martino Faggiani, direttore (qui insolitamente in scena) del Coro della Casa; Coro che, più tardi, al IV atto, si produrrà in un apprezzato O Signore, dal tetto natio di grande intensità, fiore all'occhiello di una prestazione che invero brilla dall'inizio alla fine della recita. Gli interni del palazzo di Arvino sono affidati ad altre proiezioni, fughe di portici e colonne su tonalità di grigi, su cui brilleranno le fiamme alla fine. È qui che inizia a svelarsi il perché degli strumenti sul palcoscenico: Giselda intona la sua Ave Maria (attenzione: Ave e non Salve, come la censura impose al tempo di Verdi: si utilizza qui l'edizione critica a cura di David R. B. Kimbell, che disincrosta anche il libretto) a fianco di flauto e clarinetto, come più tardi canterà con a fianco il violino di Costea alla morte di Oronte, dopo che quest'ultima avrà terminato il suo applauditissimo preludio-concertino, sola al centro del palcoscenico nero, avvolta di luce soffusa, di grande suggestione. Nella visione di Pizzi, l'arco e i legni solisti sono come i doppi di Giselda (guarda caso l'unica Lombarda in una mise total white), la proiezione dei suoi sentimenti – proprio come l'arpa di Francesca Troilo, in un palco di proscenio a sinistra –: e per questo devono stare, come lei, sul palcoscenico.
I colori, quelli veri, iniziano a vedersi al II atto, «nel palazzo di Acciano in Antiochia»: il blu, l'arancione, il fucsia per le tuniche di Acciano, di Sofia, delle odalische; Oronte è in viola: curioso che sia lo stesso viola che sempre Pizzi aveva voluto addosso alla Fridman nel 2019, quando cantò l' Ecuba di Manfroce a Martina Franca, e che ora si ritrova sulle spalle di Oronte, che qui della Fridman è l'innamorato (mi si permetta una battuta: certo che, se vesti il tenore di viola, a teatro, quel tenore non potrà fare una bella fine: e infatti…). C'è posto anche per finezze psicologiche per fortuna di facile traducibilità: al termine del I atto, Pagano/Pertusi rimane solo e singhiozza al cielo, illuminato da un fascio di luce dall'alto, contro il nero della scena, simbolo del suo pentimento e della grazia che scenderà su di lui (le luci di Massimo Gasparon hanno un peso decisivo in questo spettacolo); nel mezzo della festosità del coro La bella straniera, invece, Giselda, triste, se ne sta sdraiata, coperta da un velo bianco che le viene presto sottratto da tre odalische/figuranti giocherellone (ben fatte anche le coreografie di Marco Berriel): il suo improvviso pensare alla madre fa sì che lo sfondo di finestre bianche si adombri di nero, sul quale si staglia la figura grigio-bianca della Vergine. Dopodiché il nero scompare e ritornano le finestre bianche: come se si fosse isolata nel suo pensiero. Più avanti si ritrovano la caverna di Pagano e la valle di Giosafat, sempre svolte in bianco e nero senza sorprese, con la bianca Gerusalemme in lontananza; ma l'eleganza estetica del contrasto fra Giselda/Fridman a sinistra, in bianco, e l'ulivo contorto e grigio che ondeggia debilmente a destra, in un'altra scena, resta come un tableau vivant cromaticamente riuscito, di pregevole resa scenica. Lo spettacolo si chiude con lo stesso taglio “alla Fontana” che lo aveva aperto, stavolta “guidato” da una coppia di bambini (Diana e Dario Arena Casadei) che portano, l'uno il violino, l'altro l'archetto, mentre tutti sul palcoscenico intonano Te lodiamo, gran Dio di vittoria, al quale si unisce anche Pagano che risorge da morte levandosi in piedi: ecco, sono forse questi ultimi due tocchi, i bambini e la resurrezione di Pagano, a stonare. Difficile andare, da una parte oltre l'uso del bimbo in scena per suscitare facili, materne, quanto qui fuori luogo tenerezze, dall'altra oltre il goffo “volemose bene” conclusivo, cui raramente il finale di quest'opera si esime. Ma tant'è.
Della direzione di Lanzillotta, a capo dell'ottima Filarmonica Arturo Toscanini e dell'Orchestra Giovanile della Via Emilia, e del Coro del Regio di Parma s'è già detto. Si prosegua ora col lodare il genius loci Michele Pertusi, parmigiano di nascita che di Pagano è interprete navigato, e che lo sbozza con intenzione e intelligenza, sostenuto da uno strumento che pare non risentire della lunga carriera. Si apprezza poi la scelta del cast dei tenori, ben differenziati quanto a timbro, più scuro quello di Arvino, alias Antonio Corianò, che disimpegna bene la parte e convince anche per abilità di attore, più ampio e solare quello di Oronte, alias Antonio Poli, la cui robustezza, abbinata ad altrettanta delicatezza là dove occorre, ne fa un interprete di spicco: elegante in La mia letizia infondere, quasi al confine con l'affiorare di un'inclinazione “verista” nello splendido duetto dell'atto III con Giselda («Dal nemico brando…»; «Infelice!… È un voto orrendo…»): ma ciò non fa che confermare l'immedesimazione nel ruolo di un Oronte molto “sangue caldo”, come evidentemente lo sentono Poli e Lanzillotta. Pareri contraddittori ha invece ispirato la Giselda di Lidia Fridman. Chi come me l'ha vista quale prima interprete assoluta dell'Ange de Nisida in forma scenica a Bergamo nel 2019, vorrebbe essere di parte e lodarla senza riserve; eppure, qualcosa è cambiato in questi anni: il timbro si è notevolmente scurito; la voce, che mantiene un fascino singolare, anzi, che forse proprio per questa caratteristica ne guadagna un fascino accresciuto, è profonda, calda, di buona ampiezza, con una grande facilità nel raggiungere i gravi. Il fatto è che, partendo da voce lirica, questo iscurimento va a scapito della regione acuta: ed è qui le che la Giselda della Fridman incontra le sue maggiori, quanto coraggiosamente affrontate, difficoltà: gli acuti, specialmente quelli non preparati (e ce ne sono più di un paio), arrivano, ma arrivano faticosi e poco a fuoco. Forse, ciò che riassume la sua vocalità attuale è definirla un soprano che canta da mezzosoprano. Perché in effetti la tessitura mezzosopranile è gestita con disinvoltura, e su questa non si ha nulla da eccepire.
Comprimariato di lusso quando si parla della Viclinda di Giulia Mazzola, del Pirro di Luca Dall'Amico, dell'Acciano di William Corrò (sostituito da Lorenzo Mazzucchelli nell'ultima recita di domenica 15 ottobre), del Priore di Zizhao Chen e della Sofia di Galina Ovchinnikova, questi ultimi due allievi dell'Accademia Verdiana.
Come alla prima, si registrano applausi festosi per una recita che convince anche i gusti più difficili.
Christian Speranza
30/9/2023
Le foto del servizio sono di Roberto Ricci.
|