RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

L'Olandese sbarca a Bologna

Tra il 27 e il 29 luglio 1839 l'imbarcazione sulla quale navigava Richard Wagner, con moglie e cane al seguito, da Riga a Londra, incappò in una tremenda tempesta, che sballottò la nave fin sulle coste norvegesi. In quel frangente, come racconta nella sua autobiografia, ebbe l'intuizione di scrivere un'opera sull'Olandese Volante, la nave leggendaria che mai attracca, condannata a navigare in eterno per scontare la superbia del suo capitano di aver osato sfidare il Cielo, mito nato nel XVII secolo forse sulla base di un'illusione ottica. La stesura del testo, rielaborando come suo solito le fonti, soprattutto Heinrich Heine (Dalle memorie del signor di Schnabelewopski), e della musica avvenne a Parigi, tra il 1840 e il 1841. Terminato che fu Der Fliegende Holländer, Wagner lo propose all'Opéra, che si vide sulla scrivania un atto unico di oltre due ore e mezza, un'opera con scene, arie e duetti ancora riconoscibili, ma fusi tra loro in un continuum davvero inconsueto: sono gli albori del futuro stile wagneriano, la prima opera che ammetterà al canone di Bayreuth; ma il teatro parigino, non ancora pronto, pur accettando il libretto, anzi, pur comprandoglielo, perché Wagner, in ristrettezze, dovette venderglielo «a prezzo di moneta», ne affidò la messa in musica a un certo Pierre Dietsch. Tornato in Germania, rimaneggiò la partitura suddividendola in tre atti, e in questa versione ebbe la première al Königlich Sächsisches Hoftheater di Dresda, il 2 gennaio 1843, sotto la sua stessa direzione. Andò avanti comunque a modificare la partitura fino al 1860, soprattutto ritoccandone la pesante strumentazione.

Dovette passare un po' di tempo prima che Il vascello fantasma (con questo titolo, nella traduzione di Alberto Giovannini) approdasse sulle scene italiane. Per la precisione lo fece al Teatro Comunale di Bologna, il 14 novembre 1877. E di nuovo torna, a cavallo tra gennaio e febbraio 2023, inserendosi nel progetto di riproporre i cinque titoli wagneriani che ebbero la loro prima in Italia e in particolare proprio a Bologna. Per l'occasione, la direzione è affidata a Oksana Lyniv, la regia è di Paul Curran, mentre scene e costumi sono di Robert Innes Hopkins.

La sede è momentaneamente spostata, dalla Sala Bibiena del Teatro Comunale (chiusa per lavori, al momento non si sa per quanto), all'EuropAuditorium, che, nonostante sia stato pensato come un centro congressi e non come un teatro d'opera, non delude, contro alcuni pessimistici pronostici, quanto ad acustica. Certo, il fascino non è quello di un vero teatro, sembra piuttosto un cinema senza pretese; ma se bisogna fare di necessità virtù, c'è di che complimentarsi per l'esito complessivo che se n'è cavato, almeno per quanto riguarda la recita di domenica 29 gennaio 2023, di cui si riferisce. Oltre all'acustica e alla resa dell'aspetto musicale, di cui si dirà, si è dovuta adattare la regia a un palcoscenico non pensato per l'opera, privo di profondità o di quinte e mezzi tecnici adeguati. L'allestimento di Curran sfrutta ampiamente le proiezioni video, facendo leva sull'aspetto visivo d'impatto e riducendo al minimo l'impiego di oggetti di scena, che si limitano a qualche corda per simulare l'attracco della nave di Daland, un baule in rappresentanza dei tesori dell'Olandese, dal cui interno emana una vivida luce dorata, e poco altro, eccezion fatta per le macchine per cucire del secondo atto in luogo degli arcolai, dove lo spazio scenico viene sfruttato appieno; ma un conto è inscenarlo al Maggio Musicale Fiorentino (gennaio 2019), di cui lo scrivente ha dato conto per queste colonne; un conto è apprezzarne, come si diceva, l'adattamento a un palco più modesto, ad opera sia di Curran, sia dell'aiuto regista Oscar Cecchi. Ponendoli a paragone, il confronto è paritario, ottemperando egregiamente l'adattamento agli scopi che si prefiggeva l'allestimento d'origine. Lo scopo è quello di porre l'opera, peraltro come voleva Wagner, in un contesto senza tempo, come spetta alle leggende, attingendo alla Zauberoper alla Marschner non meno che al soprannaturale orrorifico alla Lovecraft. Il risultato è un Holländer di sicura presa emotiva e di saldo ancoraggio (per restare in termini marinareschi…) ai dettami wagneriani, pur declinati alle esigenze della contemporaneità, di cui anzi vengono sfruttate con intelligenza le risorse: sulla scorta delle idee di Curran, il visual designer Driscoll Otto proietta, sul fondale e su due pannelli convessi ai lati del palco, immagini di onde e mare mosso per il primo atto (col Viandante sul mare di nebbia di Friedrich, invero non molto in sintonia con l'opera, ma transeat) e di flutti più tranquilli per il terzo; si abbandona poi, complice l'ottima componente illuminotecnica, a effetti speciali forse un po' troppo debitori al mondo splatter durante la scena corale della ciurma dell'Olandese, quando, pungolati dai reiterati inviti a unirsi alla festa da parte dei norvegesi, cantano fuori scena il loro intervento (sul passaggio personalmente più trascinante di tutta l'opera); ma, considerando la natura dannata dei marinai dell'Olandese, dopo tutto non stonano così tanto i teschi rossi, le chiazze di sangue, le impronte di mani e i fotogrammi affastellati, mobili e rapidissimi, di genere consimile: l'insieme suggerisce un'idea di caos delirante, di ebbra sovreccitatazione (più scontato l'arrivo dell'Olandese al primo atto sottolineato dal fluttuare di un teschio bianco). Il contrasto con la riuscita della scena finale è meraviglioso. Se nell'originale wagneriano Senta e l'Olandese, trasfigurati, inabissatosi il vascello, svaniscono abbracciati verso l'alto, trovando finalmente pace e redenzione, nella regia di Curran si uniscono come al di là di un velo in forma di silhouette , ombre cinesi che camminano unite verso il fondo, anch'esse quasi svaporando: un destino che li apparenta, nel loro riscatto metafisico dopo la morte, ai protagonisti del Soldatino di stagno di Andersen, peraltro cronologicamente prossimo (1838).

Se il lato registico è convincente, lo è ancora di più quello musicale. Oksana Lyniv, alla testa dell'Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, dispiega una attenta e approfondita conoscenza della partitura wagneriana – che ha diretto a Bayreuth nel 2022 (prima “direttrice” dopo centoquarantacinque anni di “direttori”) ma che frequenta dal 2017, quando lo diresse per la prima volta al Liceu di Barcellona – riuscendone a cogliere, e a sottolineare, soprattutto il lato epico, grandioso. In questo caso opta per una versione intermedia tra la prima stesura in atto unico di Parigi e quella in tre di Dresda, probabilmente per ragioni organizzative: primo atto; intervallo; secondo e terzo fusi in campata unica. Se per una direzione adrenalinica, sulfurea e luciferina, la memoria di chi scrive deve risalire a quella di Noseda del 2012 (Torino, Teatro Regio, dove fu eseguita la versione in atto unico), per una lettura più attenta e meditata bisogna riferirsi a questa di Lyniv, più affine concettualmente a quella di James Levine: tempi un poco più rilassati, che sanno fluidamente plasmarsi in funzione dell'azione scenica – e si sa quanto il teatro wagneriano sia parco, quanto ad “azione”: il teatro dei lunghi sguardi”, come è stato chiamato, che qui si esemplifica nell'incontro fra Senta e l'Olandese, minuti interi in cui i personaggi si guardano senza fare altro, mentre la musica parla per loro –, ma tensione pressoché continua lungo tutto l'arco narrativo, per contrastare il fisiologico calo di attenzione nei momenti più statici dell'opera, grazie a un'orchestra scattante e vigorosa; scavo della parola, cui viene data buona rilevanza, sottolineando quelle chiave; cura ed equilibrio dei volumi sonori, un dialogo continuo tra cantanti e orchestra, contenuta, rispetto alle dimensioni richieste dal futuro Ring, e soprattutto proporzionata alle dimensioni del luogo di esecuzione, come si diceva non propriamente un teatro; fuoco là dove serve, come nel sopracitato coro dei marinai dell'Olandese, ma anche delicatezza di sfumature: dalla concitazione dell'Ouverture si arriva al finale, con le silhouette di cui sopra sul palco e in buca un tale trattamento del suono, magnificamente terso, e tempi così trattenuti, estenuati, quasi da finale tristaniano, da Isolde Liebestod, che non si può non essere colti da un senso di pacificazione, un senso di serenità conquistata, di un orizzonte terso e roseo al termine di una notte di conflitti, che spinge letteralmente alla commozione (almeno di chi qui riferisce).

Molto validi i solisti, a cominciare da Anton Keremidtchiev, wagneriano di razza, che tratteggia un Olandese malinconico e scorato: il suo è un canto dolente, stanco (ma solo nell'interpretazione!), e forse il fatto di non possedere molto volume vocale, beninteso per gli standard wagneriani, gioca a suo favore, permettendogli di tratteggiare al meglio tale scoramento: già a partire da Die Frist ist um, l'aria del primo atto, si ha l'idea che quello «Stolzer Ozean!», sia più un'invocazione che un'imprecazione; e così via per i suoi interventi, come quell'«Holländer» di presentazione a Daland, sottolineato cupamente dai corni. La mise scelta per lui da Hopkins, lungo pastrano nero con lavallière tinta su tinta, si attaglia perfettamente al suo physique du rôle, alto e magro, e, con un po' di trucco, pallido e scavato come lo vuole l'iconografia e la descrizione nella Ballata di Senta. Molto bene anche per il Daland di Goran Juric, voce rotonda, in grado di correre e di mantenersi pulita anche nei gravi: cosa non facile soprattutto nella prima aria. Semplicemente fenomenale l'Erik di Alexander Schulz, vero Heldentenor dotato di potenza vocale, pieno dominio dell'estensione, nitore e squillo. Prova superata anche per Paolo Antognetti, un Timoniere di tutto rispetto in grado di adempiere senza sforzo apparente ai suoi pochi ma impegnativi passaggi. Il versante femminile vede Marina Ogii nel ruolo di Mary, corretta e adeguata al ruolo, e una superba Sonja Šaric che restituisce una Senta del pari battagliera e sognatrice. La si apprezza nella Ballata del secondo atto, negli «Johohoe!» ben distinti tra i piano e i forte, con quelli in piano che paiono già perdersi nelle fantasticherie del racconto, sognanti, appunto, e quelli in forte che vogliono riportare la narratrice verso il piano del racconto. La voce è robusta, accesa, brillante, corposa, l'interpretazione accorata e partecipe, una Šaric del tutto calata nel personaggio e che quasi si trasfigura nelle battute estreme del finale, con quegli acuti poderosi con cui esce di scena per concedersi poco dopo ad applausi prolungati, convinti e meritatissimi, rivolti non solo a lei ma a tutta la compagnia.

Ottimo il lavoro dell'Orchestra e del Coro della Casa, al quale si aggiunge il Coro del Teatro Municipale di Piacenza, istruito da Corrado Casati, a rinfoltirne le schiere.

Christian Speranza

22/2/2023

Le foto del servizio sono di Andrea Ranzi.