RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

9/4/2016

 

 


 

L'Olandese volante sbarca a Torino

Non si possono che dedicare parole di autentico elogio all'esecuzione in forma di concerto di Der fliegende Holländer (L'olandese volante) WWV 63 di Richard Wagner, avvenuta all'auditorium Arturo Toscanini di Torino il 24/05/2018, con replica il 26, data nella quale l'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai (OSN), guidata dal suo direttore principale, James Conlon, nominato da poco Commendatore dal Presidente della Repubblica, ha eccellentemente accompagnato solisti e cori d'eccezione nella partitura “marina” per antonomasia della produzione wagneriana.

Nel 1842 Wagner colse a Dresda il suo primo vero trionfo teatrale con Rienzi, der Letze von Tribunen; spinto da tale accoglienza, pensò di proporre l'opera che aveva composto nel 1840-41, al ritorno dalla sua fuga per debiti verso Londra, nel 1839. La traversata della Manica, con tanto di tempesta, che obbligò la nave a spingersi molto più a nord, fino al fiordo di Sandwike, in Norvegia, e una leggenda nordica ripresa nelle Memorie del signor Schnabelewopski di Heinrich Heine, operarono il miracolo nella fantasia del compositore. Nacque così Der fliegende Holländer, la prima romantische Oper, su libretto proprio, ça va sans dire, che, pur applicando ancora le forme chiuse di derivazione italiana, sebbene estremamente dilatate e deformate a fini drammaturgici, ne prende le distanze, riconsiderandole in vista, per ora di una serie di temi-reminiscenza che, passando cronologicamente attraverso Tannhäuser e Lohengrin, culmineranno nei Leitmotiven delle opere successive, Ring in testa.

Dopo aver sfidato Dio, dicendo di essere in grado di doppiare un capo in tempesta in eterno, l'Olandese viene preso in parola e condannato a navigare per sempre senza mai attraccare, se non una notte ogni sette anni: se in quell'unica notte avesse trovato una donna a lui fedele fino alla morte, la maledizione si sarebbe spezzata. Dopo l'ennesimo arco di sette anni, l'Olandese sbarca sulle coste norvegesi di Sandwike (guarda caso…), dove Daland, capitano di un mercantile lì approdato fortunosamente, gli rivela di avere una figlia da marito, Senta. L'Olandese vede in lei la possibilità di porre fine alla maledizione, ma non sa che la stessa Senta, a forza di sentir ripetere fin dall'infanzia la leggenda del pallido marinaio condannato a navigare in eterno, si convince di essere lei la prescelta. I due si incontrano, e si giurano amore. La promessa di matrimonio dà avvio alla festa dei marinai, festa nella quale cercano di coinvolgere, senza riuscirci, il silenzioso e spettrale equipaggio dell'Olandese. Erik, tuttavia, cacciatore innamorato di Senta e da tempo pretendente rifiutato alla sua mano, duetta un'ultima volta con lei, rivendicando un giuramento di fedeltà eterna da lei pronunciato tempo addietro. L'Olandese, non visto, ascolta, e si ritiene perduto: ancora una volta, illuso, una donna ha promesso ciò che non manterrà. Richiama i suoi uomini e il vascello riprende il mare. Vedendolo fuggire così, Senta, che si è votata all'Olandese fino alla morte, decide di gettarsi dalla scogliera e di morire all'istante, liberando l'Olandese dalla maledizione. Improvvisamente il vascello si inabissa e le anime di Senta e dell'Olandese salgono al cielo sopra un oceano finalmente placato.

Come spesso accade in Wagner, la proiezione fantastica-mitica di un soggetto diviene occasione per riflettere su tematiche universali, come l'aspirazione a vivere per sempre, il terrore della morte e contemporaneamente la consapevolezza che il non morire sarebbe davvero una maledizione – soggetto ripreso nella letteratura recente in opere quali L'immortale di Borges, Le intermittenze della morte di Saramago e non solo.

In origine Wagner concepì Der fliegende Holländer come atto unico, per non perdere di tensione drammatica, come poi sarà per il Rheingold (in questa versione è stata eseguita al Teatro Regio di Torino in apertura della stagione 2012-13); vista l'anticonvenzionalità della scelta, tuttavia, si vide costretto, per far accettare il lavoro, a suddividerlo in tre atti. La versione proposta da Conlon ha previsto un intervallo dopo il primo atto, seguito dal secondo e terzo atto saldati assieme secondo l'originale progetto a campata unica.

Semplicemente magnifica la direzione di Conlon e l'esecuzione dell'OSN, che hanno saputo dar vita a un Olandese mobile, vitale, carico di tensione, nonostante i limiti della assente scenografia, della quale non si è avvertita né la mancanza, né la necessità. Risultato impossibile senza l'eccellente cast. Stelle di prima grandezza sono stati il soprano Amber Wagner (nomen omen), nel ruolo di Senta, e il basso Kristinn Sigmundsson in quello di Daland. Della prima è riduttiva qualsiasi lode: voce drammatica, calda, potente, dotata di espressività, estensione e di un fraseggio e di una legatura (specialmente nella ballata del secondo atto e nel finale) evidenti, veri e propri archi melodici legati l'uno all'altro con dolcezza, uniti ad un timbro da soprano wagneriano puro sulla scorta della storica Kirsten Flagstad. Del secondo, a giudicare dal cognome, “figlio di Si(e)gmund”, e dalla voce, si potrebbe supporre che sia un ancora eroico Siegfried travestito da cantante, data la profondità e la eccezionale, davvero eccezionale potenza vocale, perfino eccessiva se commisurata al ruolo del personaggio, ma in grado di farsi leggera e modulata a tempo debito. A confronto, soprattutto durante il lungo duetto del primo atto, risulta penalizzato l'Olandese di Tómas Tómasson, baritono: seppur in grado di reggere la parte, la sua voce, dotata di volume inferiore, non lo rende all'altezza del ruolo di titolo. Non è tuttavia solo questione di volume: rispetto agli altri – che, sia chiaro, come cantante a se stante non sfigura – si nota un minor coinvolgimento, una minor legatura delle frasi e, non ultimo, un certo sforzo nella tessitura più acuta. A sua discolpa, però, va sottolineata l'estrema domanda tecnica della parte.

Degni di nota i due tenori del cast, Matthew Plenk, Timoniere di Daland, e soprattutto Rodrick Dixon, Erik. Tenori di diverso stampo, più chiaro il primo, più scuro e drammatico il secondo, entrambi convincenti. Plenk inizia a cantare dalla balconata dell'auditorium, in ossequio al fatto che, a inizio primo atto, dovrebbe trovarsi sulla tolda della nave, in fondo al palcoscenico; ma anche a distanza, grazie all'ottima emissione e all'acustica della sala, la voce giunge chiara e ben scandita in platea. Ottima prestazione per Dixon, espressivo nel riuscire a tratteggiare un Erik impetuoso, che tenta il tutto per tutto pur di convincere Senta a scegliere lui piuttosto che l'Olandese, a non gettarsi dalla scogliera, forse il più espressivo di tutti per quel che può emergere dalla rappresentazione di un'opera in forma di concerto. Potenza vocale, legatura e dizione tedesca all'altezza del ruolo. Completa il cast la Mary del mezzosoprano Sarah Murphy, purtroppo impegnata in un personaggio troppo poco presente per essere adeguatamente valutata.

A dar voce agli equipaggi dei vascelli di Daland e dell'Olandese, nonché alle ragazze impegnate a filare nel famoso Spinnerlied, ci pensano il Coro Filarmonico Slovacco, diretto da Jozef Chabron, e il Coro Maghini, diretto da Claudio Chiavazza. Più numerosa la compagine maschile rispetto a quella femminile, nel loro insieme i cori si fondono e si esibiscono in un'ottima performance, che raggiunge l'acme nel coro “demoniaco” dei marinai dell'Olandese: il trasporto, si coglie, e traspare un sincero coinvolgimento da parte degli artisti stessi, cosa che fa sempre la differenza.

Vivamente colpito, il pubblico applaude lungamente in entrambe le serate, non lesinando, una standing ovation da parte dell'ala più coinvolta.

Christian Speranza

5/6/2018

Le foto del servizio sono di Maria Vernietti.