Solo il corpo è capace di ricordare
La mano es un cuerpo, el cuerpo es una mano poetava - asciutto e tagliente come una scheggia - Pablo Neruda. Ma il corpo, nel suo “infinitamente piccolo” - e prendiamo subito a prestito, rivelandolo sic et simpliciter, il titolo dello spettacolo di teatro danza di Salvatore Romania e Laura Odierna per Petranura Danza, a Lentini - il corpo, dunque, può essere molto di più.
Il corpo è agone e agorà, è casa e campo di concentramento, il corpo è Eden e Auschwitz. E oggi il corpo sembra essere forse l'unico spazio “politico”, l'unico luogo possibile di possibile rivoluzione. Lo ribadiva in qualche modo Saverio Costanzo nel suo film di qualche anno fa, La solitudine dei numeri primi, ma lo dice da sempre la Storia dell'uomo e la storia del suo pensante “involucro”.
Solo il corpo è capace di ricordare.
Esiste, del resto, qualcosa o qualcuno che sia in grado di raccontare l'onta sterminata e sterminante della Shoah più e meglio di quei corpi oltraggiati e annullati, di quelle teste rasate, di quegli occhi allucinati e di quelle “carcasse” leggerissime scaricate a centinaia come materiale di costruzione? Nossignore. La memoria di un solo corpo, anche se infinitamente piccolo, pesa più di mille cannoni della Krupp.
Perciò è appropriata, eticamente corretta e magnificamente “scomoda” l'intuizione di Laura Odierna, coreografa e regista di Infinitamente piccolo insieme con Salvatore Romania che ne è unico interprete (non senza un corredo di suoni ed immagini e tre musicisti dal vivo: Salvo Amore alle chitarre, Stefano Cardillo al contrabbasso, Michele Conti alla lyra) che per il corpo e con il corpo fanno passare tutta l'informazione e la deformazione dei lager, eleggendo un destinatario nobilissimo e insuperato, Primo Levi (Se questo è un uomo, La tregua, Sommersi e salvati) a cui è dedicato Infinitamente piccolo che ha già avuto un felice battesimo al Teatro Odeon “Carlo Lo Presti” di Lentini ed ha già avviato un progetto per le scuole che lascia immaginare sviluppi produttivi ed emozionanti.
Il corpo come enciclopedia, dunque. Il corpo registro di presenze e assenze, il corpo-cinepresa, il corpo-parola che, parafrasando devotamente Montale, in questo caso, sì, squadra da ogni lato l'animo nostro informe. E le nostre coscienze.
Il corpo come corpo. Il corpo inflessibile e pauroso che, “Caino di suo fratello”, sta dentro alla sinistra uniforme della Wehrmacht collocata a sinistra del palcoscenico e il corpo vero di Romania, dapprima “sicuro nelle vostre tiepide case” ma in realtà tormentato da una radio aguzzina e suadente che manda e rimanda ossessivamente Lili Marlene .
E poi il corpo percosso e scosso dalla medesima, martellante successione di riti di morte. E' lo stesso treno-merci da incubo, sono le stesse urla di bambini e gli stessi ordini da “soluzione finale”: gli stessi spari, gli stessi càmici bianchi inondati da una luce rosso sangue a destra della scena, la stessa impiccagione del “danzattore” che la sceglie scientemente e per questo sta a metà tra il numero 154.517, Primo Levi (che deciderà di morire più avanti, “caduto” in fondo alla tromba delle scale) ed un numero qualunque, “infinitamente piccolo” e infinitamente grande documento di Storia.
Più delle parole (ricompattate in un “diario di baracca” che va dal 18 gennaio 1945 al fatidico giorno dell'apertura dei cancelli su cui campeggiava l'oltraggioso Arbeit macht frei) è il corpo a parlare: prima sulle braccia rinsecchite e marchiate nei fotogrammi della vergogna, poi nelle membra vere del tersicoreo – Romania – ora attraversato da creative convulsioni sulle note di Rosamunda, ora umiliato e offeso con gestualità ricorrenti di un essere in cattività.
E quello stesso corpo con indosso calzoni a righe che danno i brividi, diventa filo spinato, le mani come fruste, agitato da corse e rincorse fino a indietreggiare, inorridito, dinanzi alla divisa della paura.
E sarà ancora lo stesso corpo a “dire” concretamente di esecuzioni sommarie e di morti “accidentali” mentre rotola una, due, dieci volte nell'invisibile fossa comune idealmente al centro della scena.
A “parlare”, l'aiutano certamente i musici in penombra: struggente e storicamente necessaria la presenza del violino, strumento yiddish per eccellenza e, all'epoca, deportato tra i deportati; fondamentale la voce grave e autorevole del contrabbasso; bellissime melodie e armonizzazioni della chitarra di Salvo Amore, assai più eloquente come strumentista che come cantante quando intona, al finale, la cosmica, insostituibile Blowin' in the wind di Bob Dylan).
E più che le testimonianze, i documenti, i “fatti”, a raccontare la verità è prima di tutto il corpo che, a un certo punto, non è più quello del martire ma del carnefice: in una “resistibile ascesa” e su un assordante passo dell'oca, Romania accorda il suo moto mimetico non senza aver prima indossato il pastrano delle SS. I calzoni a righe fanno tragicamente capolino mentre lui si produce in evoluzioni e volteggi da forsennato mitomane tipo generale Goth, il “tiratore scelto” per hobby di Schindler's list. O magari da campione olimpionico di “pura razza ariana”, tra curiosi ritmi da sirtaki e accenni di passi aflamencados.
E il delirio d'onnipotenza del macho ariano (ossimoro? Nient'affatto), intontito da una mimesi di burattinaio-boia, tra forni crematori e Aktion T4 , la “morte per compassione” la chiamava la bieca retorica nazista ovvero la soppressione sistematica di persone affette da malattie genetiche o malformazioni fisiche. Di rupi di Sparta sono piene le fosse.
E, da Arturo Ui disfatto e in caduta, Romania tira fuori da una valigia un cagnolino di pezza al guinzaglio, forse una strizzata d'occhio al pastore (tedesco, neanche a dirlo) coccolato da Hitler ed Eva Braun.
Alla fine della tregua (con cui lo scrittore definì tristemente il breve periodo intercorso tra la liberazione ad Auschwitz ed il ritorno in Italia), il “danzattore” - un po' Primo Levi e un po' “infinitamente piccolo” - ripiomba sulla stessa poltrona dell'inizio. E, su una melodia in odore di musica chassidica, si priva delle vesti.
Di nuovo il corpo a dire che la tregua è finita.
Carmelita Celi
10/2/2014
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