Tra la vita e la morte
Da sinistra: Filippo Brazzaventre, Angelo D'Agosta, Amalia Borsellino, Liliana Randi.
Uno dei miti ancestrali dell'umanità è quello del viaggio ultraterreno, viaggio che nella mitologia classica assume un aspetto che il successivo Cristianesimo metterà sempre più in ombra sino a farlo scomparire del tutto: sia i greci che i romani credevano infatti che, a determinate condizioni, un vivo potesse andare nell'Ade e riportare su un congiunto morto, e viceversa che i morti fossero potenzialmente in grado di tornare fra i vivi qualora non fossero stati tributati loro onori sufficienti o annuali offerte propiziatorie. Questo aspetto di relativa interscambiabilità fra i due mondi nell'immaginario collettivo si chiuderà di fatto con il miracolo riguardante Lazzaro e con la discesa di Cristo all'inferno nei tre giorni precedenti la Resurrezione, quasi a segnare un confine definitivo e invalicabile tra vivi e morti, infranto solo una volta dal viaggio dantesco attraverso i tre regni ultraterreni. E non è un caso che l'archetipo classico e quello medievale abbiano un poeta come protagonista, e che il secondo abbia come guida il più grande poeta latino: Orfeo e Dante, e per certi versi anche la sua guida, Virgilio, rappresentano la poesia per eccellenza, la poesia come creazione e fondazione di un mondo mentale che per i greci, per i latini e poi per il mondo cristiano sarà il luogo privilegiato per trovare le risposte a interrogativi primigeni quali quelli sulle origini dell'uomo, della civiltà, sul mondo morale, sulla vita e sulla morte. Visto in tale ottica, il mito di Orfeo, il suo doloroso scacco nel tentativo di riportare Euridice alla luce del sole, può in una visione moderna tramutarsi nel suo opposto complementare: se nel mito gli dei dell'Ade accettano di restituire Euridice a patto che il poeta non la guardi prima di essere ritornato in superficie, nel mondo attuale acquista una forza inedita e cogente immaginare un'Euridice che, sulla soglia sottile tra i due mondi, guardi in volto per l'ultima volta il suo Orfeo e lo risospinga delicatamente ma fermamente verso la vita. Sì, perché a ben vedere entrambe le versioni pongono lo stesso interrogativo, invitando a riflettere con occhio tranquillo e privo di pregiudizi su di esso: che diritto ha l'uomo di valicare la sottile linea per riportare un morto in vita, o per impedire di morire a chi, ormai condannato senza scampo, vuole almeno farlo con dignità?
Su questa fondamentale domanda, più che mai cruciale ai giorni nostri, è incentrato l'interessante atto unico di Mario Giorgio La Rosa L'ombra di Euridice, in scena in prima nazionale al Castello Ursino di Catania, per la rassegna Altrove del Teatro Stabile di Catania, dal 7 al 10 giugno, con una ripresa dal 15 al 17. Si tratta di un lavoro costruito in maniera abbastanza originale, dove il mito classico si interseca sin dall'inizio con battute fuori campo alludenti a una dimensione altra che sulle prime lo spettatore coglie a brandelli, attratto com'è dalla ricostruzione fedele del mito e dalla recitazione stentorea degli attori, recitazione atta ad amplificare l'aspetto arcaico della vicenda. Le proiezioni sul fondo del palcoscenico, con le loro ombre sinuose, e le musiche contribuiscono all'illusione, fino al brusco momento che segna l'inizio della seconda parte, veloce e incalzante quanto la prima è stata lenta e meditata, dove il mito si svela per l'incubo ricorrente di un uomo, di cognome Orfei, che ha esaudito il desiderio di eutanasia della moglie afflitta da un male incurabile. Ed ecco l'Ermes psicopompo e Persefone ritornare sulla scena come medici, preoccupati di riportare il novello Orfeo, e non la sua sposa, alla vita reale: le loro battute alludono esplicitamente agli assurdi rituali legali per il fine vita imposti dalla legge, adombrano conflitti morali, immaginano soluzioni per l'uomo, decidendo infine di far di tutto per condurlo a rivivere il trauma della separazione estrema con la donna amata. E a questo punto, il cerchio si chiude con un'immagine di struggente dolcezza, dove è proprio la moglie a risospingere il consorte verso la vita, tacitando i suoi scrupoli e il suo dolore estremo, con battute che a chi scrive hanno ricordato certe accorate testimonianze di celebri e recenti casi di eutanasia, i cui fautori ed esecutori confessi sono ancor oggi perseguitati moralmente e penalmente da zelanti sostenitori di stampo medievale dell'utilità di una morte dolorosa, lenta e talvolta anche priva di dignità.
Una pièce breve ma intensa, cui il regista Angelo D'Agosta è riuscito a infondere una notevole profondità, nonostante lo spazio fosse limitato, sfruttando al meglio la corte del Castello Ursino come ulteriore elemento scenico. I costumi di Riccardo Cappello additavano sin dall'inizio l'atemporalità dell'azione, mentre le musiche di Vincenzo Gangi, insieme alle coreografie e ai movimenti scenici di Amalia Borsellino, e le luci di Salvo Orlando, connotavano arcaicamente la prima parte e conferivano una mordente attualità alla seconda. Se i movimenti scenici di Costanza Paternò e Giovanna Mangiù si snodavano flessuosi, alludendo ora alle anime dell'Ade, ora alle Parche, ora all'amore e alla sofferenza umana, la voce fuori campo di Giovanni Anfuso sottolineava con forza il contrasto tra la recitazione arcaizzante degli attori nella prima tranche dell'opera, attori che hanno fornito tutti una prova egregia, riuscendo a infondere al testo sia un distacco da tragedia greca, sia il ritmo incalzante del realismo contemporaneo, con una dizione che ha permesso di non perdere una sola battuta, e con una gestualità sempre ben calibrata ai diversi momenti temporali della pièce. Liliana Randi è stata così sia una Persefone regale e orgogliosa, sia una psichiatra sollecita verso il paziente, mentre Angelo D'Agosta ha impersonato con spontaneità sia Orfeo che l'Orfei contemporaneo. Ottima anche la prova di Filippo Brazzaventre, nel doppio ruolo di Ermes e del medico, interpretati con grande attenzione ai diversi momenti temporali, e quella di Giovanna Mangiù, dolce e struggente Euridice, dolcemente malinconica nella scena finale.
Giuliana Cutore
9/6/2018
La foto del servizio è di Antonio Parrinello.
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