RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Quando Norma è l'orchestra

 

Norma senza Norma. Potrebbe sembrare paradossale (e in effetti lo è), oltre che implicitamente denigratorio (mentre non intende esserlo affatto). La Norma diretta da Riccardo Muti, oggi, è proprio questo: una sublime macchina sonora, che riconduce il capolavoro di Bellini a un'ancestrale dimensione sinfonico-vocale – la più congrua, in fondo, a quell'idea di “melodia infinita” che resta il contrassegno primigenio delle creazioni belliniane – in cui ogni strumentista è un solista, mentre le voci retrocedono a strumenti tra gli strumenti. Privilegiati, certo, ma nella logica del primus inter pares e senza alcuna tentazione “canorocentrica”.

Per il Muti ottantaduenne di quest'ultima Norma ravennate – al contrario di quello trentasettenne che diresse Renata Scotto in una Norma fiorentina cui, a sua volta, spettò la qualifica di turning point – Bellini è il compositore della parola, prima che della musica: colui, insomma, che seppe innalzare a capolavoro le dichiarazioni della riforma di Gluck («ristringer la Musica al suo vero ufficio di servire la Poesia», evitare i «superflui ornamenti»), in un sublime afflato travalicante la coerenza strutturale, e le simmetrie sensibili più alla fissità della tragedia che alla mobilità del dramma, delle Alcesti e delle Ifigenie gluckiane. In questa prospettiva, baricentro della drammaturgia musicale diventano i recitativi: cesellati da Muti fino all'ultima microcellula, ma, attenzione, senza bisogno di fuorvianti libertà ritmiche, anzi con un severo rigore in tal senso. E, così facendo, ogni cantante – valido o modesto, non importa – viene indotto a uno scavo inusitato in termini di accento e dizione, restituendo ai versi di Felice Romani il loro ruolo di vettore neoclassico, che stempera il romanticismo di Bellini in una miscela classico-romantica destinata a restare un unicum nella storia del nostro melodramma.

Bellini, insomma, come ultimo dei classici e primo dei romantici, al pari di Mendelssohn: che, dopo Gluck, sembra appunto l'altra stella polare di questa Norma (e si parla del Mendelssohn dei grandi oratorî, beninteso). Tuttavia, di modi per declinare il romanticismo ce ne sono tanti. Se il Muti del 1978 a Firenze era ancora fedele a un'idea di romanticismo stürmisch (benché all'interno di una mediterraneità ineludibile per Bellini non meno che per Muti stesso), all'insegna di sonorità corrusche e tempestose, il Muti che dirige ora la Norma al Teatro Alighieri di Ravenna è romantico soprattutto nella lunare, lancinante malinconia di certe melodie. Con il corollario di tempi più indugianti e distesi, rispetto agli anni fiorentini: non per assaporare edonisticamente le singole note, ma sciorinarle in tutta la loro densità semantica. Il belcanto non resta ai margini, ma convive con la solennità della tragedia: al contrario da quanto sono soliti esprimere i direttori di quest'ultimo ventennio, Bellini – nell'ottica di Muti – non è il geniale esegeta di Rossini che elabora un estremo colpo di coda del rossinismo, ma la piattaforma da cui partirà Wagner e tutta un'idea di dramma musicale. In ciò ricollegandosi a un'illustre tradizione, che va dal passato ormai remoto delle Norme di Vittorio Gui e Tullio Serafin a quello ancora prossimo della Norma di Gianandrea Gavazzeni.

Per una lettura di taglio così fortemente “concertistico” la via della mise en espace, piuttosto che dell'allestimento vero e proprio, era la più logica: a Ravenna ci si è limitati a delle proiezioni (curate dal visual artist Svccy, al secolo Matteo Succi) ora didascaliche ora evocative, con il coro agghindato in tuniche galliche come da libretto mentre i solisti agivano in abiti da concerto. Lo spettacolo, d'altronde, era Muti stesso (direttore e Orchestra Cherubini stavano a loro volta in palcoscenico), la sua mimica, l'uso della mano sinistra, il gioco di cenni e sguardi con gli strumentisti. Mai come quest'anno – nelle orchestre giovanili il turnover è incessante – i ragazzi della Cherubini sono sembrati in simbiosi con il loro Maestro, duttilissimi nel cogliere ogni suo segnale per l'articolazione del fraseggio, ogni suo input per l'elaborazione del suono. Altrettanta decisiva la risposta offerta dal Coro del Teatro Municipale di Piacenza, istruito da Corrado Casati: autentico personaggio collettivo come in una tragedia greca, voce di un furore umano che, a volte, riesce ancora a farsi eco degli incanti della natura.

Cantanti scrupolosi ma non tutti all'altezza, a cominciare dalla protagonista: Monica Conesa mostra una voce prosciugata, forse pure per via di un'emissione che sembra ricalcare la Callas degli anni dell'estremo declino. I mezzi di Klodjan Kaçani sono impari al ruolo di Pollione. Paola Gardina denuncia una certa rigidità nel restituire gli affetti di Adalgisa, sopperendo però con solido professionismo (è stata una sostituzione dell'ultimo momento, tra l'altro) e sicuro vocalismo. Vittorio De Campo può contare su un timbro di basso ieratico e sacerdotale, per cui il suo Oroveso è già, per così dire, bell'e pronto. In ogni caso, a farci intuire il canto di Bellini qui – in primo luogo – è l'orchestra.

Paolo Patrizi

21/12/2023

La foto del servizio è di Zani-Casadio.