Don Checco di Nicola De Giosa
all'Arsenale di Torino
Il titolo del romanzo di Charles Dickens The Battle of Life (1846) si presterebbe bene a riassumere la tribolata quotidianità del protagonista, l'irresistibile Don Checco Cerifoglio, in bolletta permanente e con creditori-cerberi alle calcagna, ma mai a corto di espedienti, grazie ai quali riesce bene o male a restare a galla. Esile la trama di quest'opera buffa napoletana di metà Ottocento, pur guarnita di quanto basta a strutturarne i due atti scorrevoli e vari per due ore e poco più di canto e parlato tra sapide peripezie. Rappresentato al Teatro Nuovo di Napoli, tempio dell'opera buffa, l'11 luglio del 1850, Don Checco ebbe un fortunatissimo incontro e fece, anche al di là di Napoli, una non trascurabile carriera, che si protrasse fino agli anni Ottanta dell'800 con una buona settantina di allestimenti in Italia e fuori. Il libretto non ambisce a meriti letterari ma si accontenta di fornire al compositore versi di facile musicabilità e reca la firma di Almerindo Spadetta, uno dei tanti avvocati impegnato anche in altre funzioni: scriveva libretti e faceva il direttore di scena, cioè il regista, nei teatri napoletani.
Il compositore, Nicola De Giosa (Bari 1819-1885), non diversamente dalla miriade di precoci talenti pugliesi che tra il XVIII e il XIX secolo partirono per Napoli per la formazione musicale e la successiva carriera là o altrove (alla stregua dei Leo, Traetta, Piccinni e Paisiello, tra gli altri), approdò al Conservatorio di Napoli, dove fu allievo di Zingarelli e Donizetti e di quest'ultimo devoto discepolo, per poi dedicarsi alla composizione di oltre una ventina di opere comiche e serie, non contando le inedite, ed alla direzione d'orchestra a Napoli, Venezia, in Egitto e in Argentina. Il crepuscolo dell'esistenza lo vide di ritorno nella città natale.
L'intreccio di Don Checco è presto riassunto. Nella modesta, per non dire squallida, locanda del truce, scorbutico Bartolaccio, che si immagina facilmente in un angolo recondito dell'agro napoletano, trova rifugio dopo lungo errare l'ormai famelico Don Checco. Viene scambiato per il Conte feudatario, di cui è nota l'abitudine di circolare in incognito, donde una serie di equivoci e la speranza che questo “Conte” favorisca le nozze di Fiorina, figlia dell'oste, col cameriere Carletto, innamorati disperati. Il vero conte è in realtà il sedicente pittore Roberto a cui nulla sfugge di quanto accade. Don Checco approfitta dello scambio d'identità per concedersi un lauto pranzo, ma viene poi scoperto dal feroce esattore, che vuole farlo arrestare. A questo punto, da deus ex machina dietro le quinte, interviene provvidenziale il vero conte, condonando i debiti di Don Checco ma anche quelli di Bartolaccio e assegnando una generosa dote a Fiorina e Carletto.
L'opera buffa napoletana si prestava fisiologicamente a varianti, inserzioni, improvvisazioni e parodie ed il regista Mariano Bauduin, da scaltrito allievo di Roberto De Simone, vivifica e vivacizza prontamente lo spettacolo, ottenendo la piena rispondenza degli interpreti tanto come cantanti che come attori e all'occorrenza mimi. Nell'allestimento la locanda coabita con l'attiguo Teatro San Carlino, gli avventori con gli spettatori, ed il burbero oste divide la scena con il picaresco impresario Don Luzio, impersonato con estro straripante dall'attore Mario Brancaccio. Due le inserzioni musicali non degiosiane, ma che il buon Nicola non avrebbe probabilmente ripudiate: la classica Palummella a due voci e una tarantella di chiusura che si richiama alla festa di Piedigrotta. La pittoresca scena unica di Claudia Boasso, un tipico cortile popolare napoletano con panni stesi in bella vista e su cui si affaccia il teatro, vede sfilare i variopinti e vari costumi di Laura Viglione.
L'orchestra del Teatro Regio era diretta con elegante leggerezza e appropriata verve da Francesco Ommassini, coadiuvato dal versatile Coro della Casa affidato ad Andrea Secchi. L'inventiva di De Giosa è fluida e suadente, individuale e screziata, con qualche sfumatura donizettiana, ma il lascito del Barese, oltre alle partiture comiche, comprende opere serie e composizioni sacre. Varrebbe davvero la pena di prenderle in considerazione.
Il baritono Domenico Colaianni è l'incarnazione di Don Checco: una “coppia” che si può dire viva in simbiosi. Il personaggio si presenta con la maschera di Pulcinella e citerà più avanti la spaghettata di Totò in Miseria e Nobiltà. La sua è una girandola di sfumature con un timbro variegato e penetrante. Non sfigurano accanto a lui l'ottimo baritono Carmine Monaco, oste trucido e irresistibile, l'aggraziata e maliosa Fiorina del soprano Michela Antenucci, il cattivante tenore David Ferri Durà quale maldestro ma appassionato cameriere Carletto, il signor Roberto, finto pittore-vero conte, del basso Vladimir Sazdovski, che chissà perché si esprime in francese, e l'altro basso Francesco Auriemma caricato esattore che è anche zoppo.
Nel cortile dell'Arsenale, quale spazio estivo alternativo del Teatro Regio, erano in cartellone tre rappresentazioni di Don Checco. Purtroppo, a causa del maltempo cioè della pioggia, la prima non è andata oltre le prime note dell'orchestra, mentre la seconda si è interrotta a metà del secondo atto. La terza ed ultima però è andata avanti senza intoppi fino al termine. Lo scrivente è stato spettatore della seconda e della terza.
Resta il fatto che in una metropoli come Torino un titolo “nuovo” come Don Checco anziché attirare melomani stimolati a esulare dal solito repertorio, sempre quello, non riesce a riempire le poche centinaia di poltroncine dell'Arsenale.
Fulvio Stefano Lo Presti
12/8/2022
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