RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

L'intellettuale e la monaca

Antonio Gramsci ebbe un rapporto conflittuale con la musica: forse perché l'attività violinistica della moglie Giulia costituì una tacita barriera al loro stentato rapporto coniugale (lui incarcerato in Italia e lei residente a Mosca, lui malato di osteomielite e lei turbata nella psiche), forse perché la sua straordinaria capacità ermeneutica trovava terreno di elezione in ambito sociologico-letterario, ma si scontrava con la minor definitezza del linguaggio musicale. E sebbene sul passaggio di una sua celebre lettera dal carcere indirizzata a Giulia si sia fatta fin troppa mitologia (“Credo che ti abbia impressionato male il fatto che una volta io […] abbia fatto mostra in qualche modo di non poter sopportare la musica”, 28 marzo 1932), sta di fatto che il Gramsci critico musicale – attività che svolgeva sull'Avanti! in qualità di giornalista culturale – a una lettura odierna suona alquanto naïf . A cominciare da certi giudizi sprezzanti sull'opera di Giacomo Puccini.

Frutto di pregiudizio ideologico antiborghese piuttosto che di reale disamina critica, tali valutazioni fecero giustizia sommaria della Bohème (“La fortunatissima opera pucciniana non ha mutato i nostri convincimenti circa la sua mediocrità”), di Butterfly (“I valori musicali sono pochissimi”), della Rondine (“Non dice nulla a chi la sta a sentire”): dunque, è una nemesi singolare – ma, a conti fatti, pure un fertile paradosso – che la première mondiale della nuova opera di Cord Meijering dedicata, appunto, a Gramsci sia andata in scena abbinata a Suor Angelica. Come a dire, l'opera di Puccini più accusata di sentimentalismo e zuccherosità da parte della musicologia antipucciniana.

Si è debitori dell'operazione al Gerhart Hauptmann Theater di Görlitz, città sassone posta sulla linea di confine con la Polonia: uno di quei teatri della provincia tedesca ancora capaci di fare cultura vera, tanto più che la partitura di Meijering giaceva nel cassetto già da una dozzina d'anni e, nel frattempo, il giornalista-scrittore Hans-Klaus Jungheinrich – autore dell'ottimo libretto – ha fatto in tempo a passare a miglior vita. D'altronde, che proprio nell'ex DDR trovi battesimo un'opera dedicata a uno dei padri fondatori del Partito Comunista Italiano è la scelta più logica; e che, per un cortocircuito della Storia, la Sassonia oggi sia invece diventata un avamposto dell'estrema destra tedesca rende tale debutto ancor più istruttivo.

L'abbinamento con Puccini non ha solo lo scopo di rendere più appetibile la fruizione d'una partitura che, com'è nel destino di tanto teatro musicale contemporaneo, rischierebbe di suonare ostica alle orecchie di molti: la specularità tra il carcere fascista (cui è condannato Gramsci) e il convento di clausura (dove Angelica viene reclusa per punizione) è cristallina e, tutto sommato, ancor più impeccabile di quella proposta nelle stesse settimane – per una singolare coincidenza – dall'Opera di Roma, dove Suor Angelica è stata appaiata con Il prigioniero di Dallapiccola. E ad aumentare le connessioni provvedono le drammaturgie dei due atti unici: basata sul flash-back e su un andirivieni temporale quella di Meijering e Jungheinrich, all'insegna d'un apparente bozzettismo paratattico che è, invece, sapiente tecnica “divisionista” quella di Puccini e Forzano.

I quindici tableaux di Gramsci si succedono fulminei in circa settanta minuti: il carcere visto soprattutto come luogo mentale (l'opera riassume in un unico spazio le diverse prigioni dove l'intellettuale comunista fu trasferito), la natia Sardegna, la moglie intesa come presenza-assenza e la cognata Tatjana vissuta come un surrogato di Giulia, lo scontro con Mussolini all'indomani della tragedia Matteotti, la trasferta a Mosca e le incomprensioni con Stalin che ne derivano, tutto fluisce con una stilizzazione teatrale unita a una scorrevolezza paracinematografica. Meijering – classe 1955, tedesco di origini olandesi, allievo di Henze – si mette al servizio d'un libretto molto strutturato, senza tuttavia rinunciare all'autonomia semantica della musica: gli strumenti tradizionali vengono affiancati da altri più esotici, soprattutto orientali; l'elettronica trova numerosi innesti, ma sempre rigorosamente mirati; la ricchezza timbrica tende a scaturire da quella ritmica; domina la dimensione percussiva, tendente però all'introspezione piuttosto che all'ossessività. Né mancano sprazzi di musica etnica (il Cantu a tenore per rievocare la nostalgia sarda: è il quartetto vocale Tenore di Bitti “Mailinu Pira”, formidabile) e momenti quasi pop (il tema di Bandiera rossa che si fa inopinatamente strada in tutt'altro tessuto musicale). Qualche sapida concessione grottesca, come la voce di Mussolini registrata, chiude poi il variegato quadro sonoro.

Ulrich Kern – che nel corso delle repliche subentra al titolare Roman Brogli-Sacher, Generalmusikdirektor a Görlitz – dirige con l'appiombo precisissimo che tale musica richiede, ma senza rinunciare a un sano slancio operistico; così come invece, nella seconda parte, a certi “allargando” pucciniani contrappone un rigore ritmico tale da proiettare Suor Angelica in pieno Novecento musicale. Anche la regia di Bernhard F. Loges è attenta a creare un'osmosi tra le due opere, con le montagne brulle della Sardegna gramsciana che diventano il medesimo sfondo del monastero descritto da Puccini: ma se nel primo caso il regista sembra privilegiare il versante onirico (i mascheroni carnascialeschi di Mussolini e Stalin, le lettere di Gramsci che scorrono sul fondale come una sorta d'ideogrammi…), per Suor Angelica la cifra è un mix di allucinazione e realismo. E lasciano il segno tanto l'immagine visionaria della Zia Principessa che, mentre la protagonista consuma il proprio olocausto, conduce per mano il bambino morto vestito a festa quanto quella – crudamente veristica – su cui si chiude l'ultimo accordo orchestrale: una monaca che, disgustata, fugge da quel mortifero convento.

Buyan Li presta a Gramsci una baritonalità poco timbrata ma capace di molteplici inflessioni. Più franca e limpida la vocalità del tenore Yalun Zhang, che incarna sia il fratello “biologico” del protagonista sia quello “ideologico”, ossia Togliatti. Analogamente la voce della dittatura – Mussolini e Stalin – è affidata allo stesso interprete, sebbene Hans-Peter Struppe appaia baritono di qualità assai più attoriali che canore (nel prologo e nell'epilogo si fa carico pure del medico fascista, professionale ma spietato). Mentre le tre donne di Gramsci – madre, moglie, cognata – trovano icastica raffigurazione nell'austerità mezzosopranile di Yvonne Reich, nel canto teso di Johanna Brault e in quello flautato di Lisa Orthuber.

Le ritroveremo tutte e tre in Suor Angelica, nel saio della Zelatrice, della Badessa e di una Suor Osmina insolitamente a fuoco. A prendersi la scena, però, sono ovviamente la Zia Principessa e la protagonista. L'una è Michal Dorn, mezzosoprano dai mezzi solidi e copiosi; l'altra è Patricia Bänsch: una pucciniana che farebbe onore a qualsiasi teatro, capace d'imprimere a Suor Angelica una carica di ribellione e sensualità che apre uno spiraglio nuovo sul personaggio. E di restituire, così facendo, quelli che probabilmente erano gli intenti di Puccini.

Paolo Patrizi

6/5/2025

Le foto del servizio sono di Nikolai Schmidt.