RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Dentro le convenzioni, ma rifuggendole

Il biglietto da visita non potrebbe essere più eloquente. Siamo negli appartamenti di Don Bertoldo – ennesimo archetipo di “vecchio gabbato” che, al calar del sipario, dovrà riconoscere la sprovvedutezza delle sue velleità amorose in tarda età – e il padrone di casa esordisce con un conteggio imbrogliato e arruffato («Quattro via quattro, sedici… sedici, e poi quattordici…») che è un'evidente parafrasi del più lucido e illuministico «Cinque… dieci… venti… trentasei… quarantatré…» con cui, all'inizio delle Nozze mozartiane, Figaro misura la camera che gli è destinata. Gaetano Bongiardino resta, né più né meno, uno dei tanti librettisti a cavallo tra Sette e Ottocento inghiottiti dalla Storia, ma offre al ventiseienne Spontini un testo il cui incipit sollecita il mimetismo d'un musicista che non aveva ancora individuato una propria cifra: sicché tutti I quadri parlanti occhieggeranno al Mozart “dapontiano” di Così fan tutte e Don Giovanni, in un florilegio di citazioni strumentali ora implicite, ora smaccatissime.

Andati in scena nel 1800, poi accantonati – assieme a tanti altri titoli giovanili – da un compositore che col nuovo secolo imboccò tutt'altra strada drammaturgica e stilistica, infine perduti e ritrovati solo pochi anni fa (la partitura giaceva in una biblioteca privata belga, assieme ad altri lavori minori dell'autore dati per distrutti) I quadri parlanti sono stati ora riproposti in prima esecuzione moderna a Jesi: completando, così, il percorso celebrativo del duecentocinquantenario spontiniano avviato con il concerto di Riccardo Muti e proseguito con la messa in scena della Vestale. Ed è anche una maniera per porre un ulteriore tassello nella ricostruzione di quell'“altra faccia di Spontini” (il giovane Spontini, appunto, dell'artigianato operistico neo-napoletano, che agli albori del diciannovesimo secolo riproponeva, spesso mischiando lingua e dialetto, l'antica tradizione dell'opera buffa settecentesca), che in questi ultimi lustri ha già portato Jesi e il suo teatro ad allestire Li finti filosofi e Li puntigli delle donne, La fuga in maschera e Le metamorfosi di Pasquale.

In questo come negli altri casi appena citati, sarebbe inutile cercare il capolavoro nascosto che non c'è. Tuttavia, riproporre un filone farsesco ormai fuori tempo massimo induce Spontini – forse anche grazie alle sue origini marchigiane, che gli consentono di osservare “dall'esterno” i meccanismi comici napoletani – a non conformarsi alle convenzioni del genere: riproponendole, sì, però senza adagiarsi nelle formule d'uso melodico-ritmiche; e magari non addivenendo a una reale alternativa stilistica (quella di Spontini resta una comicità “accademica” più che sorgiva, neppure nella vita brillò per senso dell'umorismo), ma sempre sganciandosi da facili epigonismi e dalla cultura dello stereotipo. In questa prospettiva, le citazioni mozartiane che costellano I quadri parlanti sono qualcosa di più d'un facile omaggio a chi aveva trasformato la farsa in “commedia umana”; semmai, è cercare di trovare nell'orchestra intesa come personaggio una solida alternativa alle tradizioni. Sicché l'uso del mandolino verso il finale dell'opera non è soltanto uno strizzare l'occhio alla serenata di Don Giovanni, né gli archi in sordina con il riverberato sciabordare dei fiati rappresentano solo – nell'aria insolitamente bucolica di una protagonista altrimenti viperina – un palese occhieggiare a Soave sia il vento: si tratta di un'autentica rivincita della drammaturgia musicale, un raccontare in via strumentale ciò che una vocalità dagli stilemi ormai sclerotizzati (e che lo stesso giovane Spontini, con le sue iterazioni talvolta meccaniche, è incapace di vivificare) non può esprimere compiutamente.

In tale prospettiva, il dinamismo e l'energia dell'orchestra Time Machine Ensemble e del suo direttore Giulio Prandi sono tutt'altro che fuori stile, come potrebbe apparire di primo acchito. La dicotomia tra canto e accompagnamento sfocia in un'alacrità sinfonica, generatrice primaria delle strutture musicali, che anticipa lo Spontini che verrà; e le schematicità psicologiche dei sette personaggi, ma pure la definizione un po' approssimativa dei rapporti che s'instaurano tra loro, vengono superate da un personaggio-musica che colma le lacune del personaggio-canto. Parimenti, la regia di Gianni Marras preferisce lavorare, anziché sulla “circolarità” dei tempi comici, sull'“orizzontalità” dello spazio che li racchiude. Dunque il carosello di equivoci e travestimenti (compresa la macchinazione dei quadri che parlano, quasi anticipatrice d'un film di Franchi e Ingrassia) resta sullo sfondo, mentre il dipanarsi narrativo sta tutto nella decostruzione e ricostruzione del luogo scenico: una scatola cubiforme – la casa di Don Bertoldo – che ora ruota e ora si espande, passando da ambienti raccolti a superfici più vaste, in un dinamicissimo gioco d'incastri e un incessante corpo a corpo tra cantanti e scenografia. In ciò è stato decisivo il contributo delle giovani scenografe-costumiste Alessandra Bianchettin e Asya Fusani, che ridisegnano un Settecento contaminato con la pop art di notevole impatto plastico e cromatico.

Pure il cast è tutto di giovani, trovando i suoi elementi più interessanti in Alfonso Michele Ciulla – un Don Bertoldo misurato e antimacchiettistico, che sembra già guardare ai “buffi” umanissimi di Donizetti – e Martina Tragni, che ha lo stile e la sicurezza vocale per aggirare le incongruenze d'un personaggio di primadonna “negativa”, avventuriera gabbatrice ma alla fine gabbata a sua volta. Meno a fuoco la “seconda donna” (Michela Antenucci) e di bel carisma scenico-vocale, invece, la cameriera plasmata da Giada Borrelli, raggiratrice anch'essa. Giuseppe Di Giacinto ha la bella pasta e il bel colore del tradizionale tenore amoroso, mentre Francesco Tuppo sa come rendersi simpatico nei panni del tenore caratterista. A lui e al servo napoletano – cui presta voce il canto sillabico e il vernacolo stretto di Davide Chiodo – spettano le scene-madri di travestimento: momenti che lo spettacolo prende per quelle scene di antiquariato farsesco che sono, puntando piuttosto sui meccanismi strutturali e gli affondi di atmosfera. Proprio come faceva quell'autore comico per caso che, nei suoi anni di apprendistato, fu Spontini.

Paolo Patrizi

5/12/2024

La foto del servizio è di Binci.