L'Orontea alla Scala di Milano
L'opera barocca alla Scala è un fiume carsico che attraversa silenzioso e sotterraneo le programmazioni, riaffiorando di tanto in tanto; ma quando lo fa, lascia il segno. Sono ancora freschi i ricordi del Giulio Cesare in Egitto di Händel (2019), della Calisto di Cavalli (2021) e de Li zite ngalera di Vinci (2023), che i suoi fasti vengono ora rinverditi con L'Orontea di Cesti.
Specificare che sia di Antonio Cesti (che poi si chiamava Pietro: assunse il nome del fratello Antonio quando divenne francescano) non è superfluo. Il libretto di Giacinto Andrea Cicognini venne infatti musicato, prima di Cesti, da Francesco Lucio (Venezia, 1649), e a questa partitura, oggi perduta, aggiunse nuova musica Francesco Cirillo per un allestimento napoletano del 1654. In tutto, almeno cinque autori rivestirono di musica le parole di Cicognini, segno, questo, della diffusione di cui godettero, in un'epoca in cui era altamente infrequente che uno stesso testo venisse musicato da più un autore, come sarebbe avvenuto nel secolo successivo con quelli, ad esempio, di Metastasio. Fu però la versione di Cesti ad avere la maggior circolazione. E, a partire dalla prima, il 19 febbraio 1656 al Teatro di corte di Innsbruck, si annoverano non meno di diciassette riprese anteriori all'anno 1700 in città come Genova, Roma, Firenze, Torino, la stessa Milano, Bologna, Venezia, Palermo, Napoli ed Hannover (Cesti in persona, tenore e organista oltre che compositore, cantò probabilmente in quelle di Roma e Firenze del 1661 e curò quella veneziana del 1666), sì da diventare, assieme al Giasone di Cavalli, anch'esso su libretto di Cicognini, l'opera più popolare del Seicento (la prima assoluta del Giasone, peraltro, Venezia, 5 gennaio 1649, vide lo stesso Cesti nel ruolo di Egeo).
Tanto favore si deve al connubio, da una parte, di un libretto arguto, per Cesti ritoccato da Giovanni Filippo Apolloni (un connubio tutto made in Tuscany : Cicognini fiorentino, Cesti e Apolloni aretini), fruibile a più livelli, dal dotto dibattito filosofico nella supremazia tra quelli che Austen avrebbe chiamato ragione e sentimento, dalla suddivisone del potere – può quello esecutivo risiedere nel sovrano? Può in altre parole il re giustiziare di sua mano? – alle concessioni al gusto popolaresco della boutade, della gag, tra shakespeariana commistione di genere “alto” e “basso” e prefigurazioni in nuce di personaggi e situazioni che si sarebbero ripresentati con ben altra verve al tramonto del XVIII secolo, con un Creonte «aio di Orontea» filosofo super partes che anticipa il Don Alfonso mozartiano e androgini travestimenti (Giacinta/Ismero) che rammentano Cherubino; dall'altra, a una musica che ben si adatta alle diverse situazioni e che scorre talvolta “in presa diretta” con forme non ancora rigidamente codificate, oscillanti tra il recitativo, l'arioso e l'arietta, e pochissime ripetizioni di testo: un teatro musicale per certi versi moderno, ante-wagneriano, ante-novecentesco, più moderno di quello che avrebbe faticato non poco a disimpastoiarsi dagli schematismi primottocenteschi e messo in atto da un autore che, nato il 5 agosto 1623, dopo aver trascorso infanzia e adolescenza tra Arezzo, Roma, Volterra, Venezia e Firenze, sotto il mecenatismo mediceo, ancor giovane prestò servizio (1651-1656) presso l'arciduca Ferdinando Carlo a Innsbruck (mediceo egli stesso per sangue materno), dove appunto compose L'Orontea, il secondo e più fortunato “dramma per musica” dei tre qui composti, dopo L'Argia (1655) e prima de La schiava fortunata, o vero la Dori (1657), entrambe su libretto di Apolloni. Successivamente tornò in Italia per poi risoggiornare in terra asburgica negli anni Sessanta e chiudere gli occhi a Firenze, forse in seguito ad un avvelenamento, il 14 ottobre 1669. Ad appena quarantasei anni…
Quasi anticipando il Prologo in cielo del Faust goethiano, Amore e Filosofia discutono su chi la spunterà su Orontea, regina d'Egitto (un Egitto immaginario come quello della Zauberflöte), risoluta a rifiutare qualunque sentimento amoroso, già paga del potere, come il buffone Gelone lo è del vino e il valletto Tibrino della guerra. A farla capitolare, fin dal primo atto, è Alidoro, che giunge alla corte di Orontea presentandosi come un pittore figlio del defunto corsaro Ipparco, accompagnato da Aristea, sua presunta madre naturale. E tale è la sua bellezza, che a corte capitolano un po' tutti, in primis Silandra, dama di Corte innamorata di Corindo, «cavaliero del Regno». Ingarbugliano le cose la sottotrama di Aristea che, anziana vedova le cui canizie non sono ancora adorne di manzoniane «liete voglie sante», guarda con concupiscenza alle efebiche forme di Giacinta, schiava in abiti maschili col nome di Ismero, e i siparietti comici del sempre alticcio Gelone. Lo scioglimento avviene grazie a uno dei tòpoi più classici: l'agnitio. Un medaglione, del cui furto è inizialmente accusato Alidoro, si scopre essere stato suo fin dalla nascita, forgiato in tre copie da Tolomeo, padre di Orontea, e testimonia di un infante di stirpe regale rapito in fasce da Ipparco durante una scorribanda, allevato come figlio da Aristea (e qui la mente corre a Manrico ed Azucena: la fonte è, d'altronde, un soggetto romanzesco spagnolo del siglo de oro, come spagnolo sarà il Gutiérrez del Trovador: El perro del hortelano). Orontea può quindi sposare, mercé i regi natali, non più Alidoro, ma Floridano, legittimo erede al trono di Fenicia, obbedendo in tal modo alla ragion di Stato di un matrimonio tra nobili, così come Silandra e Corindo possono a loro volta convolare a nozze, dopo essersi perdonati a vicenda della sbandata per Alidoro.
Col mutare dei gusti, al volgere del nuovo secolo, L'Orontea venne dimenticata. Se ne persero le tracce. Negli anni Cinquanta riaffiorarono e, grazie a un lavoro di filologia sulle ben quattro fonti manoscritte d'epoca, nessuna autografa e nessuna corrispondente alla versione di Innsbruck ma con le aggiunte e le modifiche per le riprese successive, è stato possibile ricostruirla. La prima esecuzione in tempi moderni si ebbe alla Piccola Scala nel 1961, sotto la direzione di Bruno Bartoletti e con la regia di Luigi Squarzina. Sebbene non sia entrata propriamente in repertorio, oggi è possibile ascoltarla, dopo l'incisione pionieristica di René Jacobs del 1982 (in veste sia di direttore, sia di protagonista), in diverse registrazioni e qualche ripresa video.
Alla Scala L'Orontea mancava da sessantatré anni: dopo quell'unicum del 1961, infatti, non venne più ridata. Torna ora nella sala del Piermarini per cinque recite nei mesi di settembre-ottobre 2024, terzultimo titolo prima che un'immersione nel repertorio tedesco, con Der Rosenkavalier e Das Rheingold chiuda la stagione. Si darà conto qui della seconda di esse, quella di sabato 28 settembre.
La riscoperta è condotta sotto la felice bacchetta di Giovanni Antonini, specialista del repertorio barocco, che dirige impeccabilmente sia il cast, di cui si dirà, sia i diciannove membri dell'Orchestra scaligera, adeguando sonorità, volume e inflessioni alle mutevoli necessità espressive di una partitura che fa dei contrasti, dei rivolgimenti improvvisi e del cambio di registro alcuni dei suoi cardini. L'azione sul palcoscenico è seguita fedelmente, aderendo ad ogni scarto di umori e languori dei solisti, plasmandosi ora a docile ancella dei bassi di lamento, ora lambendo con discrezione le passioni d'ira e di senso di Orontea o il delicatissimo sonno di Alidoro, ora facendosi gagliarda compagna delle trivialità in ritmo puntato, quasi danzante, di Gelone e Tibrino, plasmato da Cesti sull'arguto – e in qualche caso deliberatamente ambiguo – libretto di Cicognini.
Diciannove i membri dell'Orchestra, si diceva, tutti impegnati su strumenti d'epoca. Quattro violini primi e quattro secondi, due violoncelli e un contrabbasso, più un nutrito continuo – due clavicembali, organo, due tiorbe, viola da gamba/lirone – e un paio di dulciane/flauti. Un'orchestra curiosamente senza viole, concepita come canovaccio a tre voci, due violini e continuo, sul quale il concertatore aveva, e ha, modo di spaziare con la sua competenza. E qui di competenza ce n'è molta.
Tantus labor al servizio di una compagnia di alto livello, sul versante sia vocale, sia performativo. Per meglio comprendere la compenetrazione di canto e recitazione, varrà inglobare l'una nell'altra in un discorso che coinvolga anche la regia di Robert Carsen, che cura le luci assieme a Peter Van Praet, con scene e costumi di Gideon Davey. Sulla base degli sfarzosi allestimenti secenteschi come quelli probabilmente presenti a Innsbruck (per la Dori si ha notizia di complesse macchine sceniche), Carsen esclude le suggestioni egizie, in realtà mero pretesto per un'ambientazione esotica e “altra” anche nel libretto, per enucleare le funzioni drammaturgiche delle figure, con un'Orontea al vertice di un sistema gerarchico chiuso, le figure della Corte come membri di un entourage a lei sottoposto, e il duo Alidoro/Aristea come outsider – concezione simile a quella di Anja Krietsch che, per l'allestimento alla Staatsoper di Amburgo del 2014 faceva di Orontea una diva del cinema, Creonte il direttore di produzione e il resto della Corte lo staff dello studio cinematografico.
In questo caso, Carsen prende le mosse dall'attività di pittore di Alidoro e fa di Orontea la direttrice di una galleria d'arte contemporanea che porta il suo nome, montando, su una grande struttura girevole, ora lo spazio espositivo, con tele astratte che vengono messe e tolte e decoratori impegnati ad imbiancarne le pareti, ora il suo studio, qui omaggiando il capoluogo lombardo con lo skyline dei grattacieli della nuova Milano, ora gli archivi e i depositi dei quadri, zona più appartata e dimessa ove si svolge la scena più ilare e dell'opera: la celebrazione del vino e della guerra quali alternative all'amore da parte di Gelone e Tibrino. Una direttrice, Orontea: fluente chioma corvina e ricciuta come le sorelle Labèque, abiti d'alta moda (compreso un completo giacca e gonna rosso in similpelle da vera “femmina d'assalto”), ultimi modelli forse visti alle sfilate della fashion week, durante il cui clima, fatto di bollicine e vernissage, parrebbe essere ambientata la vicenda, peraltro rispettando le unità aristoteliche di tempo, luogo e azione grazie al progressivo scurirsi del cielo (nel quale trascorre un realistico velivolo in ascesa), finché l'ultimo atto si svolge di sera. Una manager, Orontea, una self-made woman, decisa e intransigente all'inizio, sempre più languida man mano che l'amore agisce su di lei. Stéphanie D'Oustrac si distingue nel dare a questo personaggio un'evoluzione, senza mai rinunciare a un'altera femminilità connaturata al rango e caratterizzandolo a tutto tondo anche in grazia di una vocalità modellata ad arte sulle diverse necessità espressive. A lei sono dedicate infatti non solo la sospirosa Intorno all'idol mio, l'aria più famosa dell'opera, eseguita con trasporto, sì, ma senza abbandonarsi a una languidezza che sarebbe fuori luogo per il suo lignaggio, ma anche brani di maggior fierezza, come Superbo Amore (atto primo) o il duetto con Giacinta e il tentativo di pugnalamento, reso con dovuta drammaticità, o di trasognato incanto, come S'io non vedo Alidoro (atto secondo).
Da par sua, Francesca Pia Vitale tratteggia una Silandra-segretaria che accenna all'uso provocatorio delle sue grazie con il profondo spacco della gonna grigia, ma non sdilinquisce il suo personaggio a frivola fraschetta. La sua voce affascina come il suo timbro, avvolgente e morbido, che ha modo di farsi apprezzare soprattutto in Come dolce m'invaghì, in cui sublima una palpabile sensualità, e soprattutto in Addio, Corindo, addio, resa con spiccato patetismo. In questo, si assortisce molto bene e a livello paritetico col suo promesso, il Corindo di Hugh Cutting, controtenore dalla notevole fascinazione timbrica e ben calato nel personaggio, forse un curatore della mostra in completo grigio e dolcevita chiaro. E si assortisce molto bene anche la coppia Orontea-Alidoro, grazie all'Alidoro di Carlo Vistoli. Il suo personaggio, un incrocio tra Casanova e Don Giovanni nella disinvoltura con cui allunga il suo catalogo leporelliano, si rende concreto grazie a una recitazione magistrale, dapprima quasi in abiti da teenager ribelle, capelli lunghi, felpa e jeans macchiati di colore (colori che gli arrivano molto realisticamente con un pacco Amazon!), poi in uno sgargiante completo nero e oro fornitogli da Orontea, perfetto exemplum della vacuità e del La Stravaganza di certi ambienti, con cui conclude la recita in mezzo a fotografie che lo ritraggono accanto a famosi nudi d'arte in omaggio alla sua carriera di libertino, attorniato da fotografi e fan ai quali firma autografi: situazioni che mima e in cui si cala con realismo. Ma è col suo ottimo falsetto, spesso, solido e carnoso, che incanta, sapendolo oltretutto adattare, anche lui come D'Oustrac, ai diversi momenti dell'opera, tre su tutti, la lettura della lettera di Orontea a fine atto secondo, il duetto irato con Silandra e il piccato Il mondo così va, in cui il testo scivola sul cliché dell'incostanza femminile.
Molto bene anche per il Tibrino di Sara Blanch, versatile interprete di ruoli diversissimi e qui impegnata in un agente di sicurezza in nero, che non esita a impugnare la pistola – forse con una punta di esagerazione da parte di Carsen, che trasforma Tibrino in… Tibrina per esigenze drammaturgiche. Voce smaltata e fluida, Sara Blanch convince lungo tutta la recita e particolarmente durante la scena del ritratto di Silandra, la quale, incipriandosi per mettersi in posa, offre il destro a Tibrino per cantare Or se dir mi convien la verità sull'usanza di truccarsi («Dio vi ha dato un viso e voi ve ne create un altro»: parola di Amleto), cantata con estro ed espressione. Estro ed espressione, e notevole istrionismo, caratterizzano pure l'ottima prestazione di Marcela Rahal, un'Aristea peperina addetta alle pulizie impegnata nel trascinare via sacchi neri della spazzatura con un grembiale liso e guanti di gomma gialli. Notevole la prima scena della fallita seduzione di Giacinta/Ismero nel terzo interrato del palazzo, parcheggio di moto da corsa, una delle quali forse di proprietà di Giacinta, alias Maria Nazarova, che Carsen maschera da uomo vestendola da motociclista in nero con casco rosso e facendole raccogliere i capelli biondi, il cui scioglimento, assieme al gozzaniano «inganno dei cinabri sul volto troppo bianco», la riveleranno come donna. Adeguata quanto a interpretazione, partecipe e convincente soprattutto nel lungo racconto del secondo atto, Nazarova dispone di strumento cristallino e vibrante, che presta a dovere al suo personaggio.
Il versante delle voci gravi contempla infine il serioso e impostato Creonte di Mirco Palazzi, forse il serio revisore dei conti o il legale della galleria, in completo grigio e cravatta, e il Gelone di Luca Tittoto, vero mattatore della serata di trascinante comicità, concierge in livrea granata e bottoni dorati, che coniuga le doti attoriali ad una voce ben timbrata, solo talvolta con poco affondo nei gravi, per il resto caratterizzata da un'espressività che si avvale anche di una sillabazione molto ben scandita. Memorabile la sua (impropriamente) “aria di sortita” Chi non beve/Vita breve /Goderà e in molti altri frangenti. Peccato per il taglio delle scene XV e XVI dell'atto secondo, che avrebbero interposto un suo intervento comico tra lo svenimento di Alidoro e Intorno all'idol mio: occasione mancata di poter ulteriormente ascoltare la sua voce, ma funzionale al fine di mantenere il clima “alto” della scena.
È comunque l'unico taglio interno importante, d'altro canto, a parte quello più vistoso. L'adattamento ad un'ambientazione contemporanea priva lo spettacolo della necessità del Prologo filosofico, che viene infatti rimosso in blocco. Lo spettacolo, della durata già così di tre ore e mezza, intervalli compresi, ha comunque soddisfatto le aspettative dei barocchisti e appagato la curiosità di chi non di frequente ascolta tale repertorio. Una Scala non al completo – diversi vuoti in platea e nei palchi – ha accolto con convinti e prolungati battimani tutto il cast e soprattutto Antonini, che prima di salire alla ribalta ha eroicamente continuato a dirigere in buca la conclusione dell'atto terzo nonostante la maleducazione e la cafonaggine di gran parte del pubblico plaudente sopra la musica. Il mondo così va.
Christian Speranza
30/9/2024
Le foto del servizio sono di Vito Lorusso©Teatro alla Scala.