RECENSIONI
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L'arte più difficile

La decontestualizzazione è nel destino delle opere postume, licenze, rifacimenti e nuovi criteri puntellano spesso le creazioni che l'autore non accompagnò in vita. Nulla di strano, quindi, se Rita – amabile divertissement in lingua francese di un Donizetti che per il pubblico parigino aveva appena realizzato la ponderosa Favorite, e teneva nel cassetto altri capolavori di vaste proporzioni per i palcoscenici d'oltralpe – sia rimasto un oggetto misterioso, da maneggiare più disinvoltamente che con cura: composto nel 1841 e tenuto a battesimo solo un ventennio dopo, quando l'autore era morto da una dozzina d'anni, strutturato nella forma “aperta” dell'opéra-comique (l'alternanza di brani parlati tra un numero musicale e l'altro ammette il trattamento da canovaccio della parte testuale) e in odore di sine cura (questa farsa in un atto ha il sapore di occasionale appendice per un operista come Donizetti, ormai proiettato verso commedie di ampio respiro psicologico).

Insomma da quando, a metà del secolo scorso, Rita si è occasionalmente riaffacciata sui palcoscenici italiani grazie alla versione ritmica di Enrico Colosimo, l'operina ha flirtato – dal punto di vista delle libertà strutturali – con l'operetta; e il fatto che si sia creata nel tempo una tradizione esecutiva pure in lingua tedesca, con tutti gli ulteriori accomodamenti del caso, ha corroborato l'idea d'una partitura capace di flettersi alle più svariate esigenze di chi la porta in scena. Deve essersi ricordato di Rita pure Steno, quando girò Letto a tre piazze: la vicenda dell'ostessa che malmena il secondo marito dopo averle prese dal primo, dato per morto, e che invece riappare all'improvviso dai ghiacciai del Canada, non è lontana da quell'esilarante filmetto del 1960, dove il matrimonio tra Peppino De Filippo e la bella vedova Nadia Gray viene terremotato dal ritorno del coniuge originario disperso in Russia, che ha le fattezze di Totò con colbacco in testa e racchette da neve ai piedi.

Le cose però, come sempre accade con Donizetti, sono meno semplici di quanto sembri. Il ritorno alla dimensione della farsa breve, che sembrava aver accantonato, non ha né il sentore dell'esercizio di stile – fu così invece per Rossini, quando si riaccostò al genere comico con Le Comte Ory – né la frettolosità del lavoro d'occasione: traspare semmai l'umana consapevolezza che nessun percorso creativo può dirsi concluso, la volontà di rimettersi in gioco con una struttura che, qualche anno prima, gli aveva dettato ancora un capolavoro come Il campanello. E la schematica stilizzazione dei protagonisti (soprano soubrette e dispotica, tenore comico-sentimentale, baritono buffo carico di sapore) non coincide con un vecchio stampo, perché qui è l'orchestra il quarto personaggio che commenta, descrive, manda avanti l'azione. Mutevolezza ritmica, contrasti timbrici, capacità di “pensare romantico” (in termini coloristici) perfino all'interno d'una intelaiatura veterofarsesca è il marchio di fabbrica del Donizetti orchestratore negli anni inquieti della sua maturità: rimasta nel cassetto, la piccola Rita non poté competere con le consorelle “serie” – Leonora, Maria Padilla – che la precedettero e seguirono, ma è anch'essa figlia di questa stagione.

Il Cantiere Internazionale d'Arte di Montepulciano ha ora portato in scena una nuova versione di Rita: e l'ha fatto appunto prendendosi le libertà statutarie per una partitura del genere. In questo caso però i cambiamenti sono sembrati, sotto almeno due aspetti, più destrutturanti che funzionali, fedeli alla musa di un percorso parallelo anziché volti a restituire – sia pure con ingredienti un po' modificati – gli aromi della ricetta donizettiana. Intanto è venuto meno quell'impasto strumentale che per Donizetti non è tappeto sonoro delle vocalità, ma drammaturgia timbrica: vuoi perché lo spettacolo era stato concepito in tempi ancora di distanziamento tra gli orchestrali, vuoi per altre ragioni, si è pensato di ricorrere a una trascrizione cameristica; e benché La Filharmonie sia un ensemble giovanile di rassicurante professionismo, tanto più se guidato dall'appiombata bacchetta di Marc Niemann, ne è derivato un prosciugamento in termini non soltanto fonici, ma descrittivi, umoristici, di carica teatrale. Quanto al lavoro di trascrizione in sé, il musicista Paolo Cognetti parla della ricerca «di un suono ruvido, “contemporaneo”»: cosa che in realtà non è poi emersa molto, ma fa entrare in causa il secondo aspetto. Ossia la rilettura registica.

Vincent Boussard sembra dare poco credito a questo Donizetti minimalista (nell'impianto), passatista (nel tratteggio dei caratteri) e incline ancor più del solito a non prendersi troppo sul serio, consapevole com'era che la farsa resta comunque la più difficile delle arti. Il regista francese invece l'impianto lo complica (l'osteria diventa, metateatralmente, lo stesso Teatro Poliziano), i caratteri li aggiorna a un me too d'inflazionata odiernità (trasformare la manesca Rita in una vittima del maschilismo porta l'operina lontano dai suoi confini naturali) e, quanto alle difficoltà della farsa, le aggira eludendo tale dimensione, sostituendola con un pedale vagamente pinteriano tra l'assurdo e il sinistro, fino a un epilogo posticcio che sancisce la soppressione del maschio. Patrizia Ciofi affronta con estrema compenetrazione la metamorfosi insufflata al suo personaggio: ma se la duttilità dell'attrice incute entusiasmo, l'affievolimento della cantante desta imbarazzo. Più a fuoco in termini di suono il giovanissimo Matteo Tavini, dove certe acerbità inevitabili in un tenore principiante non disdicono alla raffigurazione del maritino schiaffeggiato. Quanto a Dietrich Henschel, mette il suo pedigree di commediante mozartiano e straussiano, nonché raffinato liederista, al servizio di un ruolo buffo all'italiana: trovando un'idiomaticità atipica ma innegabile (scioltissimi i parlati), grazie anche a una voce tanto chiara nel colore quanto risonante nel registro grave. Insomma, un vero cantante da Cantiere. E non a caso interprete di riferimento delle opere di Henze, il compositore cui Montepulciano deve tutto.

Paolo Patrizi

21/7/2022

La foto del servizsio è di Irene Trancossi.