ALTRI TRE SOLDI
In principio, si sa, era il Verbo. Ma in principio forse era anche il Tango. Con la sua forza ritmica, e la molteplicità delle sue figurazioni, per Astor Piazzolla il Logos era proprio lui: e come Gluck due secoli prima aveva riformato il melodramma, riportando la parola a una posizione non ancillare rispetto alla musica, così Piazzolla tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento riformerà il tango, reintroiettandolo non più quale tappeto sonoro per danzatori infaticabili, ma commistione di generi, fusione di linguaggi (una contaminazione speculare al miscuglio di razze che caratterizza l'Argentina), perfino “ipotesi” teatrale. Un tango nuevo, come si dirà poi. Punto di non ritorno d'un tale itinerario artistico sarà Maria de Buenos Aires: “operita tangueira”, nelle parole dell'autore, e dunque per Piazzolla approdo operistico della sua idea di tango. Siamo nel 1968, ma – nell'Argentina della dittatura militare – è un '68 assai diverso da quello italiano, francese, americano. Gli echi delle rivolte studentesche, e soprattutto delle battaglie femministe, certamente trapelano: eppure sarebbe un errore leggerli con gli occhi dell'emisfero boreale. Così come quei bassifondi portati in scena da Piazzolla e dal suo librettista Horacio Ferrer hanno ben poco a che spartire, al di là della comune facciata di magnaccia e prostitute, con quelli di Brecht, Kurt Weill e la loro Opera da tre soldi.
I limiti delle Marie de Buenos Aires proposte nei teatri italiani (il centenario dalla nascita di Piazzolla quest'anno ha dato vita a una vera e propria renaissance di tale lavoro anche da noi) risiedono per lo più in questo: la chiave culturale eurocentrica sposta il baricentro dell'opera, ne altera l'essenza, fa slittare il visionario in lugubre, il panteistico in iconoclastico, il politico in senso ampio in ideologico in senso stretto. In tale prospettiva scivola pure lo spettacolo di Stefania Panighini andato in scena a Jesi, frutto d'una coproduzione con Savona e Trapani.
È certo benemerita la volontà della regista di restituirci un Sudamerica e un tango epurati da qualsivoglia seduzione cartolinesca, niente rosa in bocca e cosce al vento, un po' come tante Carmen odierne che sempre più spesso rinunciano a plaza de toros e zeffirellerie (ma con un compositore anticonformista come Piazzolla le tentazioni bozzettistiche sarebbero comunque difficili). Tuttavia, quest'interno bonaerense – la Panighini firma pure scene e costumi – avvolto nel fumo e fatto di lamiere dissolve in funereo ogni impulso fantastico; l'Argentina “mentale” cui forse lo spettacolo aspirava diventa, più che altro, un livido spaccato di qualsivoglia periferia del mondo; e la catartica “blasfema religiosità” dell'opera – morte, resurrezione e verginità di ritorno della prostituta protagonista – cede il passo a una raffigurazione del mito cristiano meramente polemico-grottesca, asciugando la magia trasognata di quella laica Via Crucis che sono i diciassette quadri di cui si compone il testo.
Gli interpreti – a cominciare dai sei danzatori del gruppo coreutico savonese chiamato a incarnare un microcosmo emarginato e sordido, ben coreografato da Andrea Degani e Giovanna Di Fazi – restituiscono meglio il mondo fantastico di Piazzolla. L'attore Davide Mancini, nella parte parlata del Duende, mostra tutta la vitalità del folletto-burattinaio e Giuseppina Piunti – un mezzosoprano “lungo”, capace d'imporsi per estensione non meno che per flessibilità e colore – ha una fisicità capace di trasmettere tanto la sensualità quanto l'innocenza della protagonista. Convince meno l'altra voce cantata del cast, Enrico Maria Marabelli, baritono troppo pallido e metallico per una parte vocalmente impegnativa come quella del Playador.
L'orchestra dell'Opera Giocosa di Savona (al bandoneon Giancarlo Palena) si disimpegna con scioltezza, precisione, perfino idiomaticità. Magari, si potevano chiedere al podio pulsazioni maggiormente ossessive – quel “suonare con rabbia” di cui parlava Piazzolla – e una più marcata interazione tra la componente ritmica, comunque ben restituita, e quella timbrica. Sta di fatto, però, che Aldo Sisillo concerta con idee chiare, sottolinea le strutture classiche della partitura operistizzandola il meno possibile, la dimensione a mezza via tra cantata scenica e oratorio profano emerge con chiarezza (in questo anche entrando in collisione con i differenti intendimenti della regista). E, nell'attesa di tempi postpandemici in cui il teatro risorga, godiamoci nel frattempo questa resurrezione di Maria. Che poi, per Piazzolla, altro non era che la resurrezione del tango.
Paolo Patrizi
3/9/2021
La foto del servizio è di Stefano Binci.
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