Il ritorno della Mozart
Al di là del valore intrinseco – altissimo – dell'esecuzione musicale, la nota più lieta di questo concerto sta nella sua esistenza: a tre anni dalla sospensione dell'attività (e dalla morte di Claudio Abbado, che l'aveva fondata), l'Orchestra Mozart si è ricostituita il 6 gennaio per un concerto a Bologna, città in cui nacque tredici anni or sono e dove trovò la propria “casa” nel Teatro Manzoni, con replica due giorni dopo a Lugano. E il fatto che la serata sia stata affidata alla quasi ottantottenne bacchetta di Bernard Haitink – che, sostituendo Abbado, diresse l'ultima performance della compagine prima del silenzio – assume, anche indipendentemente dal grande prestigio dell'anziano direttore olandese, un emozionante valore simbolico. Se poi questa rentrée di una delle più eccellenti orchestre nate nel nuovo secolo resterà un episodio isolato o sarà l'inizio di un nuovo corso, lo si potrà vedere nei prossimi mesi.
Simbolica, in qualche misura, è pure l'impaginazione del programma, che si è aperto sotto il segno di Beethoven con l'ouverture dall'Egmont di Goethe: la stessa pagina con cui, nel 2004, l'Orchestra Mozart inaugurava il suo primo concerto; ed è stata, anche, l'occasione per confrontare – sul filo della memoria – il Beethoven ancora tardoilluminista di Abbado con quello più pienamente romantico di Haitink. Ma, beninteso, c'è romanticismo e romanticismo. Dal canto suo, Haitink resta un preclaro esempio di “romantico moderno”: in cui la drammaticità è sempre meditatissima, con un equilibrio – davvero goethiano – tra temperante passionalità e passionale temperanza, e dove l'Allegro conclusivo ha poco di ottimistico e ancor meno di trionfalistico, ma appare permeato da quell'energia interlocutoria che mantiene il seme del dubbio. Di questo tipo di lente romantica, oggi, è difficile trovar traccia nei grandi del podio delle generazioni successive: e davvero si può dire che, tra pochi o molti anni, con Haitink scomparirà una classe di direttori di cui si è perso lo stampo.
Ancor più sfoltito e moderno è apparso il successivo capitolo beethoveniano, che era poi il cuore della prima parte del programma: il Concerto per violino e orchestra in Re maggiore. La Mozart, infatti, è un'orchestra – tra tutti gli insegnamenti di Abbado resta questo forse il più pregnante – che pure nel repertorio sinfonico “pensa” cameristico: e quest'anima rarefatta, che trova il proprio valore assoluto nella condivisione del far musica, ha instaurato con il violino di Isabelle Faust una dialettica coerente e “domestica” (nel senso più alto e musicale del termine), dove tutto si concatena con logica serena ma stringente, dall'iniziale ruolo sussidiario dello strumento solista alla sua crescente e limpidissima sovraesposizione. La lunga militanza della Faust nella grande letteratura musicale tardonovecentesca, da Ligeti a Kurtág, ha contribuito a esaltare questa percezione di un Beethoven figlio anche del nostro tempo: senza relativismi stilistici, ma solo con antenne sensibili a quel nervosismo e quel disagio che trapelano dietro le trasparenti malinconie della pagina. In perfetta coerenza con la lettura di Haitink, per il quale questo concerto sembrerebbe, in primo luogo, la cronaca trasfigurata di un transito dal sogno alla realtà.
Pure la seconda parte del programma non indulge a compiacimenti: la Renana viene considerata una sinfonia ottimistica, ma Haitink pare volerci dire che Schumann, nonostante le sue dissociazioni psichiche, musicalmente è sempre uno – e tutt'altro che gioioso. La spensieratezza dello Scherzo è quasi soltanto apparente; nel Solenne trapela più malessere che severità; prevale un paesaggismo idealizzato piuttosto che cronistico (Haitink crea un ponte anche con il viaggio sul Reno wagneriano, quello di Sigfrido nella Götterdämmerung); ed è proprio quel tempo intermedio della sinfonia (Nicht schnell, “Non presto”) che più di tutti riassume la posizione dell'ottantottenne direttore verso la Renana: una partitura apparentemente affermativa e dove, invece, è più facile individuare ciò che non è piuttosto che dire ciò che è.
A Bologna successo trionfale. Con ineludibile nostalgia per i dieci anni di Abbado, ma altrettanta speranza che la sua orchestra torni a vivere comunque.
Paolo Patrizi
10/1/2017
La foto del servizio è di Marco Caselli Nirmal.
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