RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

9/4/2016

 

 


 

Gluck e gli esorcismi della morte

Dopo una lunga assenza torna al Costanzi Orfeo ed Euridice

Posto agli albori del dramma musicale nella declinazione monteverdiana, il mito di Orfeo indaga il potere salvifico della musica, l'idea dell'arte come antidoto alla morte. Nella sua ansia riformatrice del teatro d'opera, Gluck si appropria del tema trattandolo con estrema essenzialità, caratteristica ben recepita da Robert Carsen, autore dell'allestimento visto al Costanzi. Mancava da molti anni, troppi (eravamo nel 1968), questo titolo fondamentale nell'evoluzione del teatro settecentesco, pervaso da uno spiccato minimalismo ancora più evidente nella versione del 1762, legata alle celebrazioni onomastiche viennesi dell'imperatore Francesco I, preferita per l'occasione alla più nota edizione parigina. Un'essenzialità esaltata dallo spettacolo di Carsen il quale, consapevole dell'atemporalità del mito, ambienta l'azione in una scena unica e vuota, a simboleggiare il senso della perdita. In quest'ottica anche i movimenti coreutici, previsti dalla partitura, vengono ridotti a scarne pantomime dal valore rituale. Di grande impatto il quadro iniziale, con il corteo funebre che avanza lento mentre Orfeo lamenta la scomparsa di Euridice. Roberto Gabbiani ottiene il massimo effetto dal coro, l'espressione di un dolore struggente esternato con classica sobrietà, acuito dalle invocazioni del protagonista. Con pochi semplici gesti, Amore entra in scena e addormenta il mitico cantore, prefigurandogli la salvezza della sua amata. Il viaggio nell'Ade è immersione nell'inconscio, nelle paure ataviche dell'uomo. Gluck evita le connotazioni gotiche e corrusche presenti ad esempio in Monteverdi, il confronto diretto con le potenze infernali, e non accenna mai direttamente alla forza della musica. Contrariamente all'Orfeo monteverdiano, l'eroe di Gluck non ostenta il suo strumento. Egli è semplicemente un uomo, e in questo senso appare più vicino a tutti noi, estremamente moderno. L'Ade di Carsen rifugge dunque qualsiasi connotazione di maniera. Bastano il coro disteso a terra, avvolto in bianchi sudari, e le fiaccole disposte intorno a delineare uno spazio altro, è sufficiente l'uso sapiente delle luci, curate dallo stesso regista insieme a Peter van Praet, a esaltare i punti salienti della narrazione. Il divieto incomprensibile imposto dai numi perderà Euridice per la seconda volta. Come nel Lohengrin la donna deve astenersi dal domandare, pena la definitiva separazione. Ma se l'eroe wagneriano, simbolo della solitudine dell'artista, sarà costretto a tornare nel regno del sovrannaturale, rinunciando al sentimento terreno, l'Orfeo di Gluck troverà in Amore un alleato disposto a resuscitare nuovamente Euridice, in un tripudio conclusivo inevitabilmente imposto dall'occasione celebrativa nella quale l'opera vide la luce. Nonostante questo, lo spettacolo muove le corde più intime del nostro cuore, lasciando nell'anima l'evidenza inevitabile della caducità e della finitezza dei destini umani.

Bella l'esecuzione musicale. Gianluca Capuano predilige le atmosfere soffuse e la chiarezza del dettaglio, rispetto alla connotazione prettamente drammatica. Una lettura in sintonia con la poetica del compositore, tutta giocata sull'espressione di un'emotività nitida e sincera. La parte di Orfeo era affidata a Carlo Vistoli, il quale mostra una sintonia totale con il personaggio. La voce del contraltista è omogenea, piena nel centro e nell'acuto, appena un poco sfocata nel registro grave. Ne risulta un'interpretazione commossa e toccante, di sicura musicalità. Brava anche Mariangela Sicilia nel ruolo di Euridice. Infine esile ma efficace Emöke Baráth (Amore). Grande successo di pubblico in una sala gremita.

Riccardo Cenci

22/3/2019

La foto del servizio è di Fabrizio Sansoni.