Il sonno della ragione genera mostri
Strappare il sipario, con gesto imperioso e sacrilego, era stata l'intuizione d'apertura del Don Giovanni scaligero firmato da Robert Carsen nel 2011. E lo stesso gesto ritorna adesso, con diversa valenza, nell'Otello verdiano, coprodotto dal Teatro Massimo di Palermo con il San Carlo di Napoli, per la regia di Henning Brockhaus. Spetta a Jago, questa volta, far precipitare un velario che riprende un dettaglio del pannello centrale del Giardino delle delizie, forse il trittico più celebre di Hieronymus Bosch. Tra il giardino dell'Eden e una raccapricciante visione dei dannati all'Inferno, la parte centrale – di ardua interpretazione anche per i più accreditati storici dell'arte, per l'intricato groviglio di figure simboliche che lo caratterizza – rappresenta un mondo di incorrotta perfezione, una veduta fantastica di nudi e animali immaginari in cerca del piacere dei sensi. Si tratta di una delle testimonianze più affascinanti del talento visionario del pittore olandese, di una visione metaforica della realtà che Jago distrugge e spazza via: per squadernare gli abissi di uno “spazio mentale”, l'imponente scena progettata da Nicola Rubertelli, la punta di una lancia che si schiude per lasciar scorgere immagini di battaglia e prefigurazioni della morte, proprio quelle «sventure» di Otello che avevano suscitato la «pietà» amorevole di Desdemona.
Seguito con attenzione e accolto con entusiasmo dal numeroso pubblico che affollava il teatro, l'Otello palermitano si è rivelato uno spettacolo ricco di suggestioni. Gran parte del merito va certamente ascritto alla concertazione di Renato Palumbo, bacchetta tra le più versate nel repertorio italiano. Basta ascoltare la grande scena della tempesta iniziale per comprendere quanto il direttore veneto respiri all'unisono con una delle più impervie partiture del genio di Busseto: accenti corruschi accompagnano l'alzarsi del sipario e più che mai risplende l'omaggio verdiano all'altra grande bufera del teatro ottocentesco, quella su cui si apre il primo atto della Walküre wagneriana. Un gioco d'echi e di filiazioni, di temperie drammaturgica che qui ritroviamo nell'impostazione incisiva, in un fraseggio scolpito con grande attenzione alla parola scenica verdiana, particolarmente importante nel penultimo esperimento shakespeariano del musicista. Tra i momenti più riusciti conviene ricordare il Finale II, con la potente invettiva dei due protagonisti maschili, e lo splendido concertato del Finale III, in cui la materia sonora fluisce magmatica, increspata dal sovrapporsi degli affetti dei vari gruppi di personaggi. Una vera lezione d'interpretazione verdiana, che ha trovato adeguato riscontro tanto nella compatta massa corale, come sempre istruita da Piero Monti, che nei brevi interventi delle voci bianche, sotto la guida di Salvatore Punturo.
Più discontinuo è parso invece l'apporto del composito cast internazionale, a cominciare dal ruolo del titolo, tra i più temibili dell'intero repertorio lirico. Gustavo Porta non è certo una scelta sbagliata per il ruolo di Otello, che ha già avuto modo di rodare su altri palcoscenici internazionali. Lo studio del personaggio è approfondito, i centri bruniti ed efficaci alla bisogna, gli acuti debitamente stentorei. Peccato che l'intera composizione del tenore argentino venga inficiata da un'intonazione non sempre a fuoco e dalla tendenza a perdere corpo nel registro acuto, generando un'impressione di affaticamento con il progredire dell'azione. Le è al fianco la giunonica, generosa Desdemona di Julianna Di Giacomo, voce fluviale e perfettamente adatta al ruolo – giusto un tantino di crema in più non guasterebbe, per citare la qualità della più grande interprete di questi anni, Renée Fleming. Ma certo occorre accreditare al soprano californiano una bella tenuta nella toccante grande scena del quarto atto, costruita facendo affidamento su un'emissione perfettamente costruita sul fiato. Una prova di rilievo di un'interprete che potrà farsi onore in molti altri titoli del repertorio verdiano.
Ma è lo Jago di Giovanni Meoni a conquistare la palma del migliore della serata. Voce chiara e ben timbrata, fraseggio adamantino e insinuante, nei panni dell'alfiere disegna una figura nobile e mobilissima, pronta a cogliere ogni cedimento dell'animo del comandante. Con un «Credo» finemente cesellato e un sogno evocato senza concessioni alla retorica di tradizione (su tutte le vocine in falsetto negli interventi attribuiti a Cassio), va anche menzionata l'articolazione perfetta di «Questa è una ragna», tela sapientemente tessuta, ordita ai danni di chi non possiede la sua lucida perversione. Nei ruoli di contorno si distinguono la corposa, vibrante Emilia di Anna Malavasi come Giuseppe Varano, certo destinato a traguardi più importanti del ruolo di Cassio; e ancora la gravità del Lodovico di Manrico Signorini e le prove corrette di Maurizio Lo Piccolo (Montano) e Pietro Picone (Roderigo).
Si è già in parte accennato al lavoro del regista tedesco, attento a sviluppare collegamenti con la pittura rinascimentale, che ritorna a figurare sulla scena, negli ultimi atti, insieme ad un gigantesco arazzo optical per la grande aria di Desdemona, prima del finale. È un figurativismo mai fine a se stesso, e anzi capace di suggerire rimandi al tempo dell'azione, che ritroviamo anche nei sontuosi, ricchissimi costumi firmati da Patricia Toffolutti. Ma è un mondo di cui – giustamente – non s'intravvedono che squarci, improvvisi barbagli di luci caravaggesche, tra nuvole di fumo, nelle suggestive composizioni impaginate da Alessandro Carletti. All'interno di questi tableaux è tutto un brulicare di maschere della Commedia dell'arte, di doppi dei personaggi, alle prese con il ricordo livido di amori sotterrati sotto cataste di cadaveri, di trionfi palesati da ingombranti trofei di battaglia, macerie di esistenze senza speranze. E anche se il palcoscenico meriterebbe, talora, di essere meno ingombro – soprattutto quando l'unico movente pare un inestinguibile horror vacui – appaiono particolarmente felici almeno due notazioni, che riguardano i personaggi antitetici di Desdemona e di Jago. La prima è presente sin dalla tempesta iniziale, avvolta nel bozzolo della «candida veste nuziale» che verrà dispiegata nel duetto finale del primo atto, per ritornare poi quale morbido, confortante sudario al finale. L'alfiere, invece, durante il «Credo» distrugge una statua della Madonna, che Desdemona tenterà pazientemente di assemblare durante la preghiera dell'ultimo atto. Per questa via, l'originalità della pagina verdiana – voluta da Boito, perché assente nell'originale shakespeariano – ritrova tutto il suo spessore e la sua forza: porto sicuro nel buio della ragione, ultima invocazione prima del silenzio.
Giuseppe Montemagno
12/3/2014
Le foto del servizio sono di Franco Lannino - Studio Camera.
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