Indovina chi viene a cena?
È trascorso quasi un quarto di secolo dall'ultima volta che il pubblico parigino aveva applaudito Cecilia Bartoli sulla scena lirica: nel corso della sua prima stagione, dopo i festeggiamenti per il bicentenario della Rivoluzione francese, l'Opéra Bastille in occasione delle festività natalizie del 1990 presentò uno dei suoi spettacoli più controversi, una ripresa delle mitiche Nozze di Figaro di Mozart nell'allestimento che Giorgio Strehler – su scene e costumi di Ezio Frigerio e Franca Squarciapino – aveva proposto a partire dal 1973, dapprima nello scrigno del teatro della Reggia di Versailles, quindi nella più confortevole sede di Palais Garnier. Giovanissima, la Bartoli è stata il primo Cherubino della nuova sala lirica, sotto la discutibile e discussa bacchetta di Gabriele Ferro; ma il regista triestino, contrariato dalle vaste dimensioni del teatro, decise di ritirare la firma dallo spettacolo, presentato adespota in quella prima occasione. Certo molte altre sono state le occasioni di applaudire la cantante romana a Parigi, a cominciare dalla maratona Malibran, dedicata alla celebre artista dell'Ottocento, celebrata con tre concerti nel giorno del bicentenario della nascita. Ma altro è il confronto con la scena, soprattutto per un'artista dallo straordinario talento scenico.
Ad invitarla è stato adesso il Théâtre des Champs-Elysées, che ha varato un piccolo festival rossiniano – tre produzioni sceniche, due in forma di concerto – inaugurato da uno dei capolavori del repertorio serio, Otello ossia Il Moro di Venezia, tenuto a battesimo al Fondo di Napoli nel dicembre del 1816. Gemma del periodo napoletano, il dramma per musica rossiniano ha beneficiato, a partire dal 1988, di un rinnovato interesse interpretativo, a partire dall'elaborazione – e poi la pubblicazione, avvenuta nel 1994 – dell'edizione critica dell'opera, curata da Michael Collins. I nomi di Chris Merritt e Bruce Ford ieri, di Gregory Kunde e di John Osborn oggi, hanno contribuito alla fortuna di un titolo che è arduo vedere rappresentato sulle scene liriche, soprattutto a causa della necessità di reperire un trio di tenori capaci di raccogliere l'eredità dei primi interpreti dei ruoli di Otello, Rodrigo e Iago, tre stelle del firmamento vocale di primo Ottocento, Andrea Nozzari, Giovanni David e Giuseppe Ciccimarra. Con il passare degli anni, tuttavia, si è posto anche il problema del recupero della vocalità di Desdemona, in origine scritto per la consorte del musicista, Isabella Colbran, ma presto diventato cavallo di battaglia di Giuditta Pasta e della Malibran. Nel corso delle riprese degli ultimi anni, alla scelta iniziale del timbro sopranile (su tutte June Anderson, Lella Cuberli e Mariella Devia) si è sostituita l'idea che un mezzosoprano possa rendere meglio il caldo velluto vocale della giovane nobildonna veneta.
Era dunque naturale che Cecilia Bartoli, che nel corso degli ultimi anni ha esplorato il repertorio della Malibran, si cimentasse con il ruolo di Desdemona. Coronata da una vibrante standing ovation del pubblico, alla prima come alle repliche, la sua interpretazione di Desdemona è semplicemente memorabile. Il mezzosoprano è oggi al vertice delle sue capacità interpretative: ne è prova una coloratura smagliante, sempre piegata a fini espressivi, la rigogliosa esuberanza di un timbro corposo, ma soprattutto un fraseggio che non smette di incantare, di restituire senso e valore anche ai passaggi più temibili della partitura rossiniana. Ne scaturisce un ritratto sbalzato a tutto tondo, ardente e appassionato, che trova nella celeberrima Canzone del salice un momento di toccante, lirica intimità. Ciascuna delle tre strofe viene infatti cesellata in maniera sempre diversa, grazie ad un legato perfetto, ad un canto a fior di labbra tutto sul fiato, alla misuratissima, calibrata scelta dell'ornamentazione, nell'ultima ripresa.
Una grande, autentica lezione di belcanto, che si univa ad una altrettanto convincente dimostrazione di arte scenica. Proveniente dall'Opernhaus di Zurigo, la produzione di Patrice Caurier e Moshe Leiser, coppia storica della regia d'opera europea, traspone l'azione negli anni Sessanta del Novecento, e fa di Desdemona, innamorata del Moro, una ragazza ‘contro', una contestatrice dell'ordine sociale cui appartiene il padre, il promesso sposo Rodrigo, l'autorità politica rappresentata da un Doge (l'eccellente Nicola Pamio, uno dei migliori comprimari oggi in circolazione, che si avvia ad essere il Piero De Palma del secolo), curvo e piegato sotto il peso del potere. È una lettura che certo forza il dramma di origine shakespeariane, ma che ha il merito di mettere in luce il razzismo che contrappone il jet set italiano ai bassifondi maghrebini che abita Otello: nelle scene di Christian Fenouillat come nei drammatici tagli di luce di Christophe Forey, infatti, non potrebbe essere più chiara la contrapposizione tra la sobria eleganza del palazzo austero in cui si svolge il primo atto, dominato da un imponente lampadario di vetro di Murano, e il salone di un bar di periferia, nel secondo atto, dove Otello si ritira a fumare il narghilè. Siamo, insomma, a metà strada tra Indovina chi viene a cena? e West Side Story: una prospettiva che in principio spiazza, ma progressivamente convince.
Piccoli interventi supportano questa interpretazione, dal servitore nero che rovescia la minestra e viene schiaffeggiato da Elmiro, alla musica araba che, in sottofondo, accompagna il cambio scena tra i due quadri del secondo atto. Tubino nero (i costumi sono firmati di Agostino Cavalca) e coda di cavallo, la Bartoli domina e si domina nelle esplosioni di rabbia di Desdemona, che ama l'altro, il ‘diverso', e lo grida in faccia al mondo: e se certo risulta eccessivo il finale secondo, in cui si rovescia una bottiglia di birra, commuove invece nell'ultimo atto. Dapprima quando infuria la tempesta e – soccorsa dalla confidente Emilia, qui nella blasonata, partecipe caratterizzazione di Liliana Nikiteanu – su un muro, con il rossetto, scrive la frase che echeggia nel canto di un gondoliere (Enguerrand de Hys), la citazione dal Quinto canto della Commedia di Dante, «Nessun maggior dolore | Che ricordarsi del tempo felice | Ne la miseria»; e poi, mentre la scritta sbava sul muro, quando recupera un vecchio giradischi, nascosto sotto il letto, e lo pone sopra la buca del suggeritore per riascoltare la Canzone del salice, l'evergreen che ne ha accompagnato l'infanzia e che, nel momento dell'abbandono e del dolore, le ricorda una stagione più serena.
L'intera distribuzione partecipa alla riuscita dello spettacolo, a partire dai tre tenori scelti per l'occasione. Metallo brunito, coloratura da brivido, John Osborn è un Otello in crescendo, fino ad un terzo atto di folgorante, mirabile composizione scenica: se gli manca il piglio selvaggio che era stato di Merritt o l'energia corrusca di Kunde, certo s'impone nella scena finale, il tormentato duetto in cui tocca le vette del sublime. Ma l'autentica rivelazione della serata è il Rodrigo di Edgardo Rocha, autentico tenore di grazia, padrone di un registro acuto stratosferico, dalle seducenti tinte elegiache di un «Ti parli l'amore» da antologia, fino alla grande aria del secondo atto, che lo vede trionfare vittorioso sulle fluide, adamantine fioriture di forza della cabaletta. Ma merita anche un cenno l'insinuante, mellifluo Iago di Barry Banks, tenore di lungo corso, impeccabile pertichino nei duetti con gli altri ruoli maschili. Nei limiti di una compita e compiuta definizione del personaggio di Elmiro gli interventi del basso Peter Kálmán, valido sostegno nei concertati dell'opera.
Unico bemolle della serata, di cui tempera l'esito trionfale, è la presenza dell'Ensemble Matheus, diretto da Jean-Christophe Spinosi. Se certo può risultare utile impiegare un'orchestra di strumenti d'epoca, capaci di ricreare – in termini di disposizione in buca, sonorità, diapason – le condizioni originarie d'ascolto, meno si rimane convinti dal suono secco, ruvido, grinzoso degli archi, dall'intonazione sempre precaria di fiati e ottoni (l'assolo di corno della Scena e duettino di Desdemona e Emilia, nel primo atto, è un autentico disastro, fa letteralmente venire il mal di mare), dalla scelta di dinamiche schizofreniche, di tempi ora lentissimi, ora accelerati all'estremo. Ne scaturisce, tuttavia, una visione che infiamma la drammaticità dell'opera e accende il vibrante, acceso gioco di chiaroscuri di una tra le più abbaglianti partiture del Pesarese. Il che, per l'unica opera coloured dell'intera storia del melodramma, è forse un dovere, ma che qui attinge alle più alte vette di un esaltante, inebriante edonismo sonoro.
Giuseppe Montemagno
22/4/2014
Le foto del servizio sono di Vincent Pontet.
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