Il Pesarese in Belgio
OTELLO
(Vlaamse Opera, Gent, 7 marzo)
Otello, rappresentato al Teatro San Carlo di Napoli il 4 dicembre 1816, è la diciannovesima opera del ventiquattrenne Gioachino Rossini, che in quello stesso anno aveva già mandato in scena a Roma Il barbiere di Siviglia (Teatro Argentina, 20 febbraio) e a Napoli La gazzetta (Teatro dei Fiorentini, 16 settembre). Ma il bilancio di quei sei anni di carriera non è puramente quantitativo e i titoli che precedono questo nuovo traguardo parlano da soli.
Se è un compositore di così verdi primavere, che infatti concluderà la carriera teatrale nel 1829, ad appena trentasette anni, con il Guillaume Tell parigino (di cui si dirà), non si comprende per quale motivo il sembiante che ce ne rimandano le immagini di “repertorio” sia pressoché invariabilmente quello di un Rossini anziano se non decrepito!
Il libretto del Marchese Francesco Maria Berio della Salsa accuserà pure tutti i difetti e le debolezze che vi ci si vogliano trovare, ma su quei versi (a cui non fu forse estranea la mano dello stesso Gioachino) sbocciò una fulgida partitura, nella magnificenza del Rossini consueto nonché dell'inconsueto, con lo svettante, straordinario terzo atto che a suo tempo destò l'ammirazione del giovane Meyerbeer. Piuttosto ci colpisce, in piena Restaurazione borbonica, il tono “libertario” di chi scopertamente parteggia per l'outsider africano, le cui vittorie in guerra avvantaggiano sì la Repubblica di Venezia, che però è prodiga soltanto di modesti allori di circostanza. Come può Otello infatti aspirare alla cittadinanza veneziana e a veder riconosciuta come legittima la sua unione con Desdemona, concupita per di più dal figlio del Doge, Rodrigo?
L'impostazione della regia di Moshe Leiser e Patrice Courier, concepita per l'Opernhaus di Zurigo nel 2012, mi sembra trasparente, scorrevole e condotta con cura, senza complicazioni se non quelle dentro gli individui e nei rapporti reciproci. Una mano di colore espressionistica avvolge discreta, tra luci spettrali e ombre incombenti, i vasti ambienti spogli di Christian Fenouillat in cui si smarriscono Otello e Desdemona quando si sottraggono all'invadente, finta affabilità del gruppo di quelli che contano, tra cui Elmiro, padre di Desdemona, e Jago sanno dove vogliono arrivare, l'uno non meno cinico dell'altro. I costumi anni Sessanta di Agostino Cavalca non attenuano l'attualità, poiché il razzismo e la xenofobia, ben evidenziati anche in dettagli a margine, si pongono, ieri come oggi, agli antipodi dell'inclusione, cristiana o umanista che sia, e l' "osannato" generale africano non trova miglior rifugio del sordido retrobottega di un locale equivoco per confrontarsi col proprio isolamento. E là verrà a scovarlo Jago, pronto a ordire il suo abietto, tragico inganno. Illuminante e palpabile quell'immagine conclusiva di Elmiro e Rodrigo che danno calci al cadavere ancora caldo di Otello, suicida dopo aver tolto la vita all'amata donna: Berio della Salsa e Rossini non ci avevano probabilmente pensato, ma questo non fotografa bene la situazione?
Validi ed espressivi nell'insieme, gli interpreti hanno reso più o meno felicemente credibili i rispettivi ruoli, a cominciare dall'affascinante soprano Carmen Romeu (spagnola come la prima Desdemona), che, con musicalità raffinata e tecnica agguerrita, incarna il suo personaggio coraggioso e dolente, già aperto al melodramma romantico (Vittorio Emiliani). La seconda donna, il mezzo soprano Raffaella Lupinacci, si rivela un'ammirevole Emilia con tutte le carte in regola per ruoli di più ampio respiro. Ma Otello allinea ben tre tenori principali, qui, nell'ordine, un russo e due americani. Il più a suo agio, Maxim Mironov quale Rodrigo, a cui presta una squallida parrucca rossiccia e un'invida faccia slavata, canta con suadente soavità e malioso squillo. Gregory Kunde, che da “anziano” prosegue una stupefacente carriera estesa e multiforme, è un protagonista di tutto rispetto, preciso e accurato. Questo suo Otello è ora eroico e appassionato, ora afflitto e desolato, ma più convincente era apparso due anni fa alla Monnaie nella versione oratoriale diretta da Evelino Pidò. Il terzo, Robert McPherson, impersona con voce chiara e alquanto velata uno Jago gioviale, mellifluamente ignobile e irresistibile faccia da schiaffi. Quanto al basso austriaco Josef Wagner, ormai di casa nelle Fiandre, il suo Elmiro è un aristocratico ed elegante stronzo di mondo, al quale presta un'elocuzione vigorosa e colorita. Restano quel tremulo e caricaturale Doge, vecchio scheletro con l'acidaro in testa, del querulo Maarten Heirman ed il valente gondoliere di Stephan Adriaens.
Ryuichiro Sonoda ha diligentemente seguito la traccia dell'eccellente lavoro di preparazione svolto dal direttore principale Alberto Zedda alla guida della Symfonisch Orkest della Vlaamse Opera, mentre il Coro della Casa, diretto da Jan Schweiger, ha adempito onorevolmente i propri compiti.
Fulvio Stefano Lo Presti
29/4/2014
Le foto del servizio sono di Annemie Augustijns.
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