Promettente cast di giovani in
Lucrezia Borgia al Teatro Verdi di Padova
Si potrebbe azzardare, che far debuttare un gruppo di giovani interpreti nel capolavoro donizettiano Lucrezia Borgia sia una follia. Azzardo che invece ha affrontato senza esitare il direttore artistico del teatro “Verdi” di Padova, Federico Faggion. Certo della freschezza dell'interpretazione e della veridicità scenica che tale scelta avrebbe aggiunto alla resa finale dell'operazione, scommettendo così in una promettente iniziativa, che al momento nessun grande teatro Lirico di tradizione si permette di affrontare, e soprattutto dando piena fiducia a giovani voci formanti un cast tutto italiano , che a sua volta non ha deluso.
Dunque pieno merito a quest'iniziativa padovana, che ha inaugurato l'attuale stagione lirica con uno dei più bei titoli del catalogo donizettiano, tratto dal dramma di Victor Hugo, che impostò una vicenda truce e romanticamente inverosimile da cui Felice Romani trasse ispirazione per il libretto del suddetto melodramma, che andò in scena in prima assoluta, al Teatro alla Scala il 26 dicembre del 1833.
Siamo innanzi ad uno dei personaggi più affascinanti e controversi della storia italiana del Rinascimento, la cui vicenda personale è da secoli fonte di ispirazione per drammi scritti o musicati, fino alle moderne serie televisive, in cui liberamente vengono narrati gli intrecci privati e le trame politiche che si dipanano intorno a questa figura.
La Borgia di Donizetti è però soprattutto madre, il cui nobile sentimento verso il figlio ne addolcisce la brutalità dei delitti compiuti. Diversamente dalla versione teatrale, infatti, non è la protagonista a morire, ma il figlio, per involontario avvelenamento da parte sua, lasciandola nello sgomento più totale sino allo svenimento. Rimaneggiata più volte fino al 1840, nel tentativo di mettere d'accordo tutti tra artisti, censura, e anche lo stesso Hugo, l'opera presenta alcune varianti nel finale. Se vicenda e drammaturgia possono lasciare perplessi, l'ispiratissima e inesauribile vena melodica donizettiana sublimano e confezionano un capolavoro, che per l'epoca presenta aspetti scabrosi nel contenuto, e asprezze musicali che sembrano contrastare gli stilemi del Belcanto, con taglienti dinamiche e azzardate soluzioni armoniche e contrappuntistiche, ma il tutto rientra al contempo in una perfetta sintesi della poetica donizettiana.
La recita a cui faccio riferimento è quella andata in scena il 18 Settembre scorso, come Prova Generale (Benché designata come Anteprima per giovani e scuole), per cui è lecito pensare che i cantanti si siano un po' “risparmiati” vocalmente e che la direzione d'orchestra, avesse ancora da affinare al meglio, alcuni passaggi specifici della partitura, ma l'impressione generale che se ne è avuta è stata di un'esecuzione più che lodevole con alcuni momenti più riusciti di altri e una resa omogenea e di buon livello. La pecca principale è stata soprattutto l'assenza di una lettura registica precisa e chiara, da parte di Giulio Ciabatti, che desse una credibilità scenica ai vari personaggi e alla vicenda in sé. I protagonisti sembravano infatti, lasciati un po' a sé stessi, cercando di risolvere il necessario risvolto psicologico dei personaggi, con una gestualità generica e movimenti scenici limitati. Così pure per i vari interventi corali e di ensemble.
L'idea scenica di Roberta Volpe è senza connotazione di tempo e di luogo, ossia un grande ambiente “colonnato”, su sfondo di un bianco abbacinante, genericamente inglobato in semplici quinte nere e pochi elementi scenici, che non aiutava di certo a “entrare” nel personaggio i vari interpreti, ma anzi li obbligava ad un risalto massimo delle loro capacità attoriali e gestuali che non erano state “assecondate” da una regia coerente e attenta. Buona resa visiva dei costumi, a cura di Lorena Marin, anche se non sempre storicamente attendibili, senza fondamentali differenziazioni tra cortigiani e nobili e con qualche caduta di gusto per quelli dei figuranti. Efficace atmosfera d'ambiente, creata dal progetto luministico gestito da Bruno Ciulli, seppure più attento ad una visione d'insieme che non al risalto dei singoli interpreti.
Sul versante musicale si sono apprezzate alcune punte d'eccellenza, a partire dal giovanissimo soprano trevigiano Francesca Dotto (Lucrezia), appena venticinquenne, di bellissima presenza e doti vocali più che promettenti caratterizzate da una buona emissione, morbidezza, acuti luminosi, bei pianissimi, anche se non ancora da vera “Tragédienne” come richiesto dal ruolo.Debuttante era anche il mezzo soprano Teresa Jervolino (Maffio Orsini), dotata di un buon colore brunito e più sicuro nel registro medio-grave che in quello acuto, che ha dato il meglio di sé nella “ballata” del secondo atto, più che nel racconto del Prologo. Anche il tenore siciliano Paolo Fanale, già conosciuto a livello nazionale e non, era qui debuttante nel ruolo di Gennaro. Ha dalla sua un bella presenza in scena, una voce di bel timbro e sicura negli acuti, seppure a tratti un po' nasale.
Il Don Alfonso di Mirco Palazzi, già apprezzato a livello internazionale, ha la protervia e la forza vocale adatti al ruolo assecondati da una buona presenza scenica. La sua interpretazione avrebbe giovato alla produzione ancora di più se meglio assecondata da una più attenta direzione d'orchestra. Ottimi tutti i comprimari, e in particolar modo il Gubetta di Andrea Zupa, il Liverotto di Vittorio Zambon e l'Astolfo di Massimiliano Catellani.
Buona la direzione del Coro Città di Padova, da parte del Maestro Dino Zambello, di alta professionalità ed eleganza.Tiziano Severini, a capo dell 'Orchestra di Padova e del Veneto, non è riuscito a rendere la giusta atmosfera timbrica, di chiaroscuri e fraseggio di cui è ricca la partitura. Staccando tempi a volte troppo lenti, tanto da mettere spesso in difficoltà gli stessi cantanti che difficilmente riuscivano a tenere la linea melodica del canto, o scegliendo dinamiche eccessive che finivano per coprirli, e con diversi momenti di confusione negli assiemi. Applausi generosi e di grande cordialità alla fine.
Giacomo Branca
3/10/2013
Le foto del servizio sono di Giuliano Ghiraldini.
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