RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Stiffelio ultimo primo a Verona

Tre novembre 2024. I bellininani esulteranno commemorando il duecentoventitreesimo compleanno del loro «nume, custode e vindice» del belcanto italiano, «casto divo» (oddio, casto mica tanto…) dalle angeliche melodie. Ma anche i verdiani hanno di che rallegrarsi. E non solo perché ricorre l'anniversario dei Due Foscari (Roma, 03/11/1844). In questa data va infatti in scena l'ultima delle prime quattro repliche assolute dello Stiffelio al Teatro Filarmonico di Verona.

Assolute. La storia del pastore fatto becco, che poi indulge per santa ispirazione al perdono, non era mai entrata nella sala del Bibbiena fino al 27 ottobre di quest'anno, e con la recita di cui qui si riferisce conclude questa prima visita: l'ultimo primo Stiffelio a Verona, che ci si augura non essere… il primo e l'ultimo. Anche perché il Filarmonico ha abituato piuttosto bene i palati fini della lirica alle riscoperte: è ancora fresco il ricordo dell'Amleto di Franco Faccio, esattamente tredici mesi fa, rinato dove nacque l'autore; scavalcato Natale, poi, senza allontanarsi dalla provincia, già si freme per il Falstaff di Salieri nel gennaio prossimo, a celebrare il cinquantenario della riapertura del Teatro.

E non si venga a dire che il Verdi raro è il Verdi minore, che non sbanca il botteghino o peggio ancora che è brutto. Volendo dividere con l'accetta la parabola verdiana, che poi di fatto è continua evoluzione, Stiffelio (Trieste, 1850) è il secondo esito del Bussetano dacché, uscito di «galera» e lasciatosi alle spalle l'ultimo fuoco risorgimentale con La battaglia di Legnano, inizia a conformare il suo linguaggio attorno al dramma intimo dei personaggi. Pochi e ben scelti. Più tardi, combinando assieme tratti del rapporto padre-figlia di Luisa Miller (Napoli, 1849) coi desideri di vendetta di Stankar, darà vita a Rigoletto, con parallelismi drammaturgici che qui in Stiffelio già prefigurano l'ancor lontano Ballo in maschera, con l'ingresso del soprano a inizio secondo atto in un luogo mortifero, o l'ancor più distante Otello, col tenore che in entrambi i casi irrompe a por fine a un duello: «Abbasso le spade!»/«Abbassate / Or quell'armi…».

L'interesse del musicologo è alto; il curioso avrà pane per i suoi denti; e il melomane verrà sedotto da melodie delibate come l'orchestrazione, calate in una struttura eccezionalmente moderna che già prelude a quel Rigoletto «senz'arie, senza finali, con una filza interminabile di duetti», ovvero con un'ideazione particolarmente fluida e discorsiva dell'azione. Le arie, e i numeri chiusi ci sono, per carità: ma la forma è talmente piegata a necessità drammatiche, che i contorni sfumano.

Un'opera di esecuzione così rara necessita di una regia che prenda per mano il pubblico non avvezzo all'ennesima Traviata. Nel caso di Verona si è ricorso all'allestimento proposto al Regio di Parma nel 2012, in coproduzione con l'Opéra de Monte-Carlo (per chi volesse, è disponibile il DVD della Cmajor; anche se l'opera è in Dmajor…), regia e luci di Guy Montavon, assistito da Cristiano Fioravanti, scene e costumi di Francesco Calcagnini. Si tratta di un'impostazione tradizionale, che se si prende qualche libertà – e se ne prende poche – lo fa in favore di una maggior trasparenza nei confronti dello spettatore: a fine secondo atto, ad esempio, il coro Non punirmi, Signor, grazie a cui Stiffelio inizia a retrocedere dai suoi propositi, è cantato su mistiche luci bianco-gialle da fuori scena; durante l'omelia sull'adultera al terzo, letta da un messale gigante in mezzo alla navata, sopra i coristi scendono lentamente sassi sospesi a funi, spade di Damocle a ricordare a «chi è senza peccato»… Non che ce ne sia bisogno, ragion per cui alcune premure risultano financo eccessive, come il cambio d'abito di Lina che da nero all'inizio diventa candido alla fine, simbolo di ritrovata purezza, per lo meno spirituale.

A proposito di costumi, che Verdi voleva fossero contemporanei – scelta ardita perché attualizzava anche il soggetto, volutamente provocatorio e pruriginoso come il tradimento e il divorzio, superato solo da quello della Traviata tre anni dopo –, agli assasveriani Calcagnini assegna castigate tenute fra il nero e il grigio, con barbe e cappelli a tesa larga per gli uomini e cuffie bianche per le donne, qualcosa fra gli abiti tradizionali ebraici e quelli amish: unica eccezione, l'outsider Raffaele, «l'indegno / turbatore di queste contrade», in redingote e panciotto cremisi – altra nota di marcato didascalismo forse un filo pedissequo; si estrae così l'immagine di una comunità religiosa molto puritana, impersonata dal vecchio Jorg incurvato su un bastone e come “chiuso” su idee e posizioni veterotestamentarie al contrario di Stiffelio (che a questo punto col perdono incarnerebbe Cristo? Forse una lettura troppo audace…), una comunità rigida e manichea al punto da dividere durante la funzione gli uomini a sinistra e le donne a destra, e farli sedere ai lati opposti della navata dominata sul fondo dalla “mostra” delle canne d'organo (anche qui, dettaglio che sottolinea il preludio d'organo solo: Peppino si sarà divertito a comporlo immaginandosi ancora seduto alla consolle della chiesa delle Roncole?). Per il resto, al primo atto il palazzo di Stankar rispecchia l'austerità del padrone di casa con nude pareti di pietra e un lungo tavolo al centro – unici vezzi un crocifisso e il libro a lucchetto di Klopstock, necessario per la trama –, mentre al secondo, luci fredde grigio-azzurre sottolineano le tombe raso terra e l'alta cancellata che cinge il cimitero, semplice, essenziale e funzionale.

A fronte di tali trovate di immediata comunicatività, paiono cadute di stile sia il ricorrere per ben due volte allo strappo di un foglio per celare gli inganni, che sa di ripetizione – la prima riferita alle carte perse da Raffaele (più grave perché il libretto prescrive che il foglio venga bruciato), la seconda quando Stankar sottrae il biglietto nel libro dalle mani di Stiffelio –, sia il duello al cimitero che, anziché con le spade, viene inscenato col bastone da passeggio di Raffaele e con un altro bastone portato da Stankar: armi che prontamente i due mettono da parte per un bel corpo a corpo a mani nude, che termina con un crocifisso a mo' di pugnale: unici appunti negativi a una regia pressoché perfetta, alla quale, per risultare efficace, non servono esperimenti “avanguardistici”, per così dire (e per non dire di peggio), come quello di Graham Vick (Regio di Parma, 2017). Pesa tuttavia in generale sul cast, e soprattutto sul terzetto solista, una quota di innaturalezza nei movimenti scenici.

Regia didascalica che va di pari passo con la direzione didascalica di Leonardo Sini, attenta e scrupolosa nel seguire plasticamente le sinuosità della partitura e in grado di metterne in luce alcuni preziosismi, come il lavorio rovelloso degli archi sotto ad Ah, dagli scanni eterei, in un delicato equilibrio con la voce, che in alcuni concertati però viene meno, la sonorità deponendo un po' troppo a favore dell'orchestra, con tratti talvolta eccessivamente fragorosi, in specie nei finali d'atto. Sono però caratteristiche conciliabili con una visione ravvicinata del pentagramma. Ciò che manca nella visione d'assieme, allontanandosi da esso, è qua e là l'involo drammatico, l'élan, la concitazione dei momenti al calor bianco che, se non esacerbati, quantomeno andrebbero sottolineati un po' più energicamente. Apprezzabile anche la prova dell'Orchestra della Fondazione Arena di Verona, ove spiccano Massimo Longhi e Matteo Forla (se coincide col primo oboista) per i rispettivi soli di tromba e corno inglese. E bene anche per il Coro della medesima Fondazione, preparato da Roberto Gabbiani, impegnato in pochi ma rilevanti interventi. Particolarmente ben fatto e ben tenuto il filato al termine di Concordia qui regni, il cui tema, opportunamente variato, si ode già nella Sinfonia.

L'ultima prima recita dello Stiffelio veronese si avvale del cast alternativo, già impegnato nella replica del 29/10. Il rôle titre è sostenuto da Stefano Secco, che prende parte alla produzione al posto del previsto Angelo Villari, dirottato sull'Andrea Chénier pisano. Uno Stiffelio corretto, quello di Secco, che se da un lato non entusiasma, a causa di una voce dal volume contenuto, che spinge con un po' di fatica in acuto ma che una volta spinto raggiunge le vette della tessitura con la dovuta sicurezza, dall'altro convince soprattutto nel canto più dialogico, dove si relaziona con gli altri solisti: sono questi i momenti in cui ha modo di esibire una buona gamma di colori e un buon fraseggio, che caratterizzano il canto elegante di uno Stiffelio dimidiato fra la morigeratezza dell'abito talare e il trasporto delle umane passioni, in cui la prima prevale sul secondo. Si continua con la pregevole Lina di Daniela Schillaci, dalla voce «liscia come vetro levigato, come cristallo turgido di eterno nitore»: e contando che qui Jens Peter Jacobsen si riferiva al lago di Garda, restiamo in zona veronese. Un cristallo inizialmente un po' troppo affilato, il suo, un po' troppo freddo e tagliente, che nel primo ensemble e nella prima sua scena, A te ascenda, tende ancora a pungere, a “bucare” in acuto, soprattutto per qualche difficoltà a controllare il suo ampio volume, ma che, a fronte di centri e gravi sempre eloquenti e ben dominati, con l'avanzare della recita trova il giusto calore e il giusto colore, oltre al giusto spessore drammatico e a doti di innegabile lirismo, che dispiega sia nella già citata Ah, dagli scanni eterei, sia in Egli un patto proponeva. Ben fatto.

Comune a entrambe le compagnie è il resto del cast, a cominciare da Vladimir Stoyanov, che si conferma ottimo professionista capace di asservire tecnica e mestiere all'espressività di qualsiasi ruolo. Qui si sforza di rendere la voce scabra, asciutta, più scura di quella di cui tendenzialmente dispone, sottolineando il lato dispotico e intransigente del suo personaggio e relegando l'unica apertura lirica all'intensa Ei fugge!… Lina, pensai che un angelo, eseguita con perizia e ottima intenzione.

Bene anche per lo squillante Raffaele di Carlo Raffaelli, nomen omen, che dà il suo meglio nel terzo atto, per l'espressivo Jorg di Gabriele Sagona, basso di stampo chiaro e dalla pronuncia ben scandita e schietta, per il Federico dell'ottimo Francesco Pittari, sempre valente, e per la bella voce cremosa e calda di Sara Rossini quale Dorotea. Nel complesso una recita più che positiva cui il nutrito pubblico tributa convinti applausi.

Christian Speranza

5/11/2024

Le foto del servizio sono di Ennevi.