Bentornata, Agnese!
Citando Umberto Eco, un classico, in letteratura, è un sopravvissuto: un sopravvissuto per ragioni darwiniane, grazie alla memoria storica, che conserva un certo numero di testi e ne rigetta altri, relegandoli nel dimenticatoio. Ciò suggerisce che non tutto ciò che non viene ricordato sia davvero indegno di essere trasmesso ai posteri: e, se alcune volte la sopravvivenza di un'opera è merito del suo valore intrinseco, altre volte è il caso l'arbitro ingiusto che decreta che cosa verrà ricordato e cosa no.
Spesso ciò vale anche in campo musicale. In questa prospettiva non si può che accogliere con interesse e curiosità la scelta del Teatro Regio di Torino di eseguire, nel mese di marzo 2019, la Agnese di Ferdinando Paer. In una stagione che ha finora evitato di proporre titoli audaci, restando fermamente e prudentemente ancorata alla tradizione del melodramma italiano dell'Ottocento, la riscoperta di un titolo negletto come questo rappresenta una boccata d'aria di novità, e aiuta a gettar luce sul genere di opera praticato in quel lasso temporale compreso tra la fine della parentesi creativa mozartiana e l'avvento di Rossini. Riassumiamo. A Vienna Beethoven muoveva i primi passi maturi coi Trii Op.1 e le Sonate Op.2, a fine Settecento. In Italia il genere di più largo consumo, l'opera, andava assestandosi verso ciò che dieci anni dopo sarebbe stato il trionfo del belcanto. In questo interregno ibrido di forme e di stili, accanto a Luigi Cherubini, Gaspare Spontini, esportatori anche oltralpe di cultura musicale col genere della cosiddetta tragédie lyrique, e a Johann Simon Mayr, oggi ricordato soprattutto per essere stato il primo maestro di un ragazzino di nome Gaetano (cognome Donizetti), opera Ferdinando Paer, oggi caduto in oblio nonostante la popolarità e la stima di cui godette in vita. Come per tanti altri autori, la selezione naturale dell'oblio avrebbe potuto essere più clemente. Nato a Parma nel 1771, un anno dopo Beethoven, nel 1806 lo troviamo a Parigi quale direttore e compositore della musica privata imperiale, nominato tale da Napoleone in persona, e, poco più tardi, nel 1813, direttore musicale del Théâtre des Italiens, carica che mantenne, tranne che per una breve sospensione, fino al 1827 (anno della morte di Beethoven). Quel 1813 in Italia resta storico per due straordinari successi mietuti da un Rossini da poco alla ribalta, uno nell'opera seria, con Tancredi (Venezia, Gran Teatro La Fenice, 6 febbraio), e uno nell'opera buffa, con L'italiana in Algeri (Venezia, Teatro San Benedetto, 22 maggio). E fu proprio per intervento e interessamento di Paer se L'italiana “sbarcò”, oltre che ad Algeri, a Parigi, preludiando già alla seconda grande parentesi creativa del Pesarese, quella, giustappunto, parigina. Successive divergenze d'opinione indussero Rossini a chiudere i rapporti col Théâtre des Italiens nel 1825 e a rivolgere i successivi quattro anni della sua produzione teatrale all'Opéra; ciò non toglie che il merito del debutto parigino di Rossini sia da ascrivere a Paer.
Il titolo con cui la piazza torinese lo riscopre oggi avrebbe dovuto essere poco più di un divertissement nel catalogo della sua produzione. Finì col diventare la più popolare delle sue quarantatré opere, elogiata da colleghi autorevoli quali Berlioz e Chopin, che la ascoltò a Varsavia nel 1830 (nello stesso anno in cui, affascinato dal canto italiano, citava Rossini nel terzo movimento del suo Concerto Op.11), durante una tappa dell'ampia tournée che la fece conoscere letteralmente in tutto il mondo, Santiago del Cile e Città del Messico comprese.
Nell'estate del 1809, tornato a Parma per far visita alla madre, Paer venne invitato dal conte Fabio Scotti a comporre un'opera per inaugurare il teatrino privato della sua villa fuori città. Per l'occasione, Luigi Buonavoglia fornì un libretto tratto da The father and daughter, romanzo di Amelia Opie del 1801, già adattato per il teatro italiano nel 1802 da Filippo Casari con la commedia Agnese di Fizendry. Ne uscì Agnese, dramma semiserio in due atti, dove, con quel “semiserio” – genere ibrido come ibrida, si diceva, è la stagione compositiva in cui nacque – si riescono a prendere due piccioni con una fava, inanellando scene buffe e scene larmoyant in modo da offrire una gamma variegata di sollecitazioni sentimentali e un campionario più o meno completo delle abilità compositive dell'autore. Questa in sintesi la trama. Dopo aver lasciato il tetto coniugale per comprovata infedeltà del marito Ernesto (tenore), Agnese (soprano) e sua figlia (bambina, mimo) si imbattono, attraversando un bosco, in un vecchio matto, scappato dal vicino manicomio: è Uberto (baritono), padre di Agnese, impazzito sette anni prima per aver creduto sua figlia morta, in realtà scappata di casa per poter sposare Ernesto. La diagnosi del direttore del manicomio Don Pasquale (basso buffo) è tranchant: un matto resta matto. Non è di quest'avviso Don Girolamo (tenore), protomedico che, a fine opera, riuscirà a far rinsavire Uberto proprio grazie alla presenza di Agnese, dapprima ricostruendogli attorno un ambiente domestico a lui familiare, comandando di parlargli della figlia come se non fosse mai partita, e poi facendogliela comparire davanti, in un anticipo delle teorie freudiane della rimozione e del pirandelliano Enrico IV, che viene guarito allo stesso modo grazie all'impatto improvviso e brutale con la realtà. Lieto fine hollywoodiano, dove non tutto deve per forza finire bene: Ernesto non verrà scoperto innocente e falsamente fedifrago in virtù di qualche colpo di scena, ma i due si ricongiungeranno (con quale spirito non si sa: certo il tradimento è stato consumato e non sventato come quello del Conte nelle Nozze di Figaro), Agnese ritroverà suo padre e la bambina suo nonno. Attorno a questa esile trama, i personaggi di Carlotta (mezzosoprano), figlia di Don Pasquale, e di Vespina (soprano), cameriera di Carlotta ed ex cameriera di Agnese, contribuiscono ad arricchire l'opera di duetti e intermezzi. I due filoni rintracciabili nell'opera, quello patetico, ravvisabile nel matto Uberto, nelle sue uscite ripetitive e nel trattamento che gli viene riservato (sarebbe lunga ripercorrere la storia dei matti in musica, dalla Nina pazza per amore di Paisiello a I pazzi per progetto, Lucia di Lammermoor e Il furioso all'isola di San Domingo donizettiani, fino alla follia momentanea del Nabucco verdiano, e l'elenco non si ferma di certo qui: questo per dire che l'elemento drammaturgico di una mente alterata non è certo raro nel mondo della lirica), e quello comico, incarnato da Don Pasquale, coi suoi atteggiamenti conservatori, retrogradi e fossilizzati nei confronti dei malati mentali (cui fa da contraltare Don Girolamo, seguace di teorie più moderne), e con l'autocompiacimento di essere padre di una bella figliola che presto lo farà diventare nonno, trovano terreno comune, come si diceva, nel genere del dramma semiserio.
Complessivamente, pur dimenandosi ancora nelle pastoie degli schemi formali dell'opera italiana (peraltro ancora in via di definizione: la “solita forma” quadripartita è ancora di là da venire, e al suo posto lo schema più frequente è il dittico recitativo-aria, quest'ultima divisa in due sezioni, lenta e veloce), con ripetizioni ridondanti e rigidità che inficiano lo scorrere lineare della trama, resta pur sempre un gradevole lavoro teatrale, perfettamente alla moda, se contestualizzato nel suo anno di nascita (1809, si rammenti), sostenuto da uno stile come quello di Paer, convenzionale secondo gli schemi dell'epoca, piacevole e accattivante («una delle più belle produzioni della scuola moderna», a detta del critico Castil-Blaze), benché privo di quel mordente che definisce da solo il capolavoro irripetibile. E fu appunto per mantenersi alla moda che, per la ripresa dell'opera nel 1824, compose alcune pagine sostitutive per il secondo atto, pagine che ricalcano in maniera sorprendente il belcanto fiorito di Rossini, tutto gorgheggi brillanti, entrato nelle orecchie dei parigini proprio in quegli anni in un felice stato di grazia (perfino l'arcigno Schopenhauer elesse a suo compositore preferito Rossini!)
I rovesci della sorte. Pochi anni dopo la trionfale ripresa del 1824, l'Agnese venne dimenticata fino a sparire dai cartelloni. Et resurrexit grazie all'edizione critica che Giuliano Castellani, musicologo e musicista egli stesso, autore tra l'altro della prima monografia in italiano sull'autore (Ferdinando Paer, opere e documenti degli anni parigini, Lang, Berna 2008), pubblica nel 2007. Così, se la prima esecuzione assoluta fu a Ponte Dattaro (Parma), nel teatro privato di Villa Fabio Scotti, come si diceva, il 3 ottobre 1809, la prima esecuzione moderna in forma di concerto avviene a Lugano, presso l'auditorio Stelio Molo, il 15 febbraio 2008, diretta da Diego Fasolis. Il Teatro Regio di Torino la riaffida a lui per la «prima rappresentazione in epoca moderna» (così in locandina, con quel sapore lessicale rétro molto anni Venti) il 12 marzo 2019, mettendogli a disposizione l'Orchestra e il Coro omonimi per quella che è a tutti gli effetti la prima messinscena teatrale dei nostri giorni.
La recita di domenica 17 marzo soddisfa pienamente le aspettative dal côté esecutivo. María Rey-Joly è una Agnese dalla voce morbida e aggraziata, che non teme di irrobustire il nerbo del suo strumento laddove serva a dare maggior spessore interpretativo al suo personaggio. Uberto si avvale del timbro caldo e profondo di Markus Werba, su questa stessa piazza già apprezzato Papageno nel maggio del 2017 e che stavolta veste mirabilmente i panni del saturnino padre di Agnese. Su Edgardo Rocha, che riveste il ruolo di Ernesto, i giudizi sono stati discordi. Sarà rimasto deluso qualche gentiluomo che si aspettava la prestanza stentorea e un po' verista dell'Heldentenor wagneriano, totalmente fuori luogo in questo caso: sì, ché Rocha sfoggia qualità da belcantista, dove lo squillo e il timbro chiaro la fanno da padrone, serviti da un'agilità che gli consente di affrontare in scioltezza gli innesti rossiniani del second'atto di cui sopra. Più corposa la voce dell'altro tenore della compagnia, Andrea Giovannini, alias il protomedico Don Girolamo, che riscuote la simpatia e la lode per una prestazione di tutto rispetto. La sua voce corre senza sforzi fino in fondo al teatro e la sillabazione è netta, precisa, ben articolata come il fraseggio che esibisce. Non guasta quel tocco di saccenza bonaria (ma giustificata, dato che è grazie a lui che Uberto rinsavisce!), declinata con una personalità che gli evitano di (s)cadere nel macchiettistico. Cosa che non si può dire senza incorrere in una mezza bugia a proposito di Filippo Morace. Il suo Don Pasquale, ampiamente adeguato per quel che concerne la voce, benché a tratti ingolato è un po' roco, esagera il lato buffo del suo personaggio, suggerendo una recitazione più adatta al teatro di prosa. Resta a onor del vero l'autentico foriero di buonumore della storia. Buona, non memorabile, la prova di Lucia Cirillo, che di Don Pasquale è la figlia Carlotta. Il cast è completato dal Custode dei pazzi Federico Benetti (basso) e dalla Vespina di Giulia Della Peruta, ottima comprimaria non nuova al pubblico del Regio.
Leo Muscato cala l'intera vicenda in una surreale dimensione senza tempo fatta di grandi scatole di medicinali di latta, da farmacia storica o da museo della medicina, che, aprendosi, rivelano l'interno delle camere dei personaggi. Trovata ingegnosa, adatta per questo tipo di opera, dove la coerenza e la credibilità della storia sono sublimate dal genere tragicomico cui appartiene. Meglio così da un lato, esaltare l'aspetto ironico e fantastico, ché a mettere in scena gli orrori degli ospedali psichiatrici ante legge Basaglia non se ne sarebbe cavato nulla di buono: citando Antunes: «isole di disperata miseria dalle quali Lisbona si difendeva attorniandole di muri e di sbarre, nello stesso modo in cui i tessuti si premuniscono contro i corpi estranei avvolgendoli in capsule di fibrosi».
Christian Speranza
26/4/2019
Le foto del servizio sono di Edoardo Piva.
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