RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Il teatro del dolore

 

Titta Ruffo – che cantò Pagliacci per un trentennio, dal 1899 (dunque sette anni dopo la nascita dell'opera) al 1929, diventandone non solo il più paradigmatico interprete baritonale, ma pure il cantante che con Caruso contribuì maggiormente allo sdoganamento del capolavoro di Leoncavallo – aveva modellato il suo Tonio studiando un disadattato psichico in cui s'era imbattuto: non per enfatizzare le tare del deforme saltimbanco leoncavalliano, ma per restituirne lo strazio con una vis oggettiva debitrice forse più di Zola che dei nostri melodrammi veristi. Pippo Delbono, in questa sua regia di Cavalleria rusticana e Pagliacci all'Opera di Roma, a Titta Ruffo forse non ha neppure pensato, ma ha dato vita a un'operazione simile: traslando nel più popolare – e talvolta, nel comune sentire, anche populista – dei dittici operistici il proprio personalissimo “teatro del dolore”, con quella sua compagnia fatta di non-attori più veri del vero (l'anziano sordomuto Bobò sottratto al manicomio, il clochard Nelson, il down Gianluca…), «uomini in carne ed ossa al par di voi» proprio come recita il Prologo di Leoncavallo. Operazione quindi del tutto coerente, anzi a suo modo addirittura filologica: dunque tanto più appaiono gratuite la virulenza e l'isteria delle contestazioni che hanno accompagnato lo spettacolo in tutte le recite.

La presenza in scena dello stesso Delbono è d'altronde discretissima, speculare alla pudicizia con cui asciuga Mascagni dalle scorie d'enfasi sedimentate dalla tradizione e restituisce l'intensità della dialettica, archiviando quella della retorica, del “teatro nel teatro” di Leoncavallo: non c'è nulla del narcisismo da regista-demiurgo nel suo breve intervento parlato a inizio spettacolo (una sorta di prologo simmetrico a quello del baritono nei Pagliacci), né nel suo andirivieni in scena che contrappunta – ora con asciutta imparzialità, ora anche con ironia, con profonda pietas sempre – il divenire dell'azione. La scatola scenica, comune per entrambi i titoli, di Sergio Tramonti (una stanza rossa di strindberghiana memoria, quasi a voler gettare un ponte “europeo” tra due opere troppo spesso circoscritte alla loro dimensione d'italianità regionale) sottolinea poi la dimensione “cameristica” impressa a vicende che, teoricamente, si svolgerebbero in piazza: ma basta Bobò che porta una croce per evocare la processione di Cavalleria, mentre Delbono getta in platea dei poeticissimi petali rossi di carta.

Si tratti di lavoro a tavolino o spontanea alchimia, i cantanti esprimono non solo sul piano scenico, ma pure su quello strettamente canoro, questo Mascagni e questo Leoncavallo concepiti “per sottrazione” eppure in modo tutt'altro che minimalista: la Santuzza di Anita Rachvelishvili e l'Alfio di Gevorg Hakobyan abbinano vocalità robustissime, che in altri contesti avrebbero offerto il destro a interpretazioni sopra le righe, a un fraseggio viceversa scarno, addirittura d'intaglio oratoriale. La devastata carnalità dell'una e la contegnosa tetraggine dell'altro finiscono con lasciare un po' in ombra il Turiddu di Alfred Kim, più che ragguardevole almeno quanto a squillo, e la sensualità affilata (con il corrispettivo d'una voce a sua volta piuttosto magra e tagliente) della Lola di Martina Belli. Dispiace invece una certa inadeguatezza – troppe le disomogeneità e i suoni “pompati” – della Mamma Lucia di Anna Malavasi: non madre-matriarca, ma autentica e coprotagonistica mater dolorosa nella visione di Delbono.

Nei Pagliacci ritroviamo Hakobyan: con i pregi già detti, anche se qui la castigata stringatezza del fraseggiatore non consente uno scandaglio totale del ruolo di Tonio. La sua voce scura e rocciosa crea un efficace contrasto con l'altro baritono, Dionisios Sourbis: soffice, chiaro e con qualche tentazione tenorile di troppo, ma comunque acconcio al ruolo di Silvio. Detto che Matteo Falcier è un Peppe in formato più da “caratterista” che da “secondo tenore”, efficace cioè nei suoi brevi interventi sparsi qua e là più che nel primo piano riservatogli da Leoncavallo con la serenata di Arlecchino, restano Canio e Nedda, ovvero Fabio Sartori e Carmela Remigio. Le qualità del primo (emissione scorrevole, registro superiore limpido) restano indubbie, per quanto non risaltino in un ruolo che, viceversa, richiede molto sul piano del canto declamatorio e degli affondi nel registro medio. La seconda mostra più d'una stanchezza vocale (l'impoverimento del settore centro-grave si traduce in suoni molto aperti), ma rende bene l'alterità di Nedda rispetto al mondo che la circonda, la sua natura di zingara aristocratica rispetto ai compagni di carrozzone, il suo anelito di fuga come retaggio materno anziché bovarismo proletario. Si avverte che, per Delbono, la vera protagonista è lei: e la Remigio riesce nell'intento.

Poco da dire sulla direzione di Carlo Rizzi: asseconda lo spettacolo, senza rivelare una spiccata personalità nella lettura musicale. La dialettica dinamica appare un po' livellata, e almeno l'intermezzo di Cavalleria (ma pure il preludio) si sarebbe giovato di tempi più distesi, ma l'orchestra suona bene, il coro è al meglio – anche sotto il profilo attoriale, tra l'altro – e i cantanti appaiono sempre sostenuti al punto giusto.

Paolo Patrizi

19/4/2018

Le foto del servizio sono di Yasuko Kageyama.