Ridi, Pagliaccio, e ognun applaudirà!
Riproporre al pubblico del Teatro Antico di Taormina il celeberrimo dittico Cavalleria Rusticana-Pagliacci rappresenta senz'altro un'ardua sfida per una molteplice serie di motivi: si tratta infatti di opere che vengono messe in scena quasi ad ogni stagione nei vari teatri italiani, e che soprattutto vantano edizioni storiche, affidate a nomi emblematici della lirica quali Maria Callas, Renata Tebaldi, Giuseppe di Stefano, Tito Gobbi e altri. Di qui gli inevitabili confronti, specialmente per i melomani, sia per i cantanti, sia per l'orchestra, ma anche, e certo in misura non minore, per la regia.
L'estate scorsa a Taormina avevamo assistito a una pregevole edizione del dittico verista, separato in due distinte serate, edizione che annoverava nomi di rilievo quali Daniela Dessì, Chiara Taigi, Fabio Armillato e Piero Giuliacci, con una regia curata da Enrico Castiglione, regia come sempre precisa e attenta al libretto, e già questo è grande merito nella marea di cervellotiche, per non dire paranoiche, messe in scena con Violette abbigliate da escort di lusso da fine Novecento-inizi Duemila, Aide che si aggirano fra tralicci ed egizi in tenute spaziali, e Norme che cantano tra corsie d'ospedale e roba del genere.
Il dittico, ripreso anche quest'anno, il 2 e 4 agosto, con la chiara intenzione, espressa da Castiglione, di fare di Cavalleria l'opera simbolo del festival taorminese, come Aida lo è di quello veronese, ha messo in scena la regia già ben collaudata della scorsa stagione, ma approfondita in alcuni momenti, come nell'intermezzo di Pagliacci, dove le movenze di Nedda e delle maschere (il cui gioco contrastava con forza con la tragedia incombente) alludevano drammaticamente al sovrapporsi del piano della finzione a quello del teatro nel teatro, evidente sin dal Prologo e concretizzantesi nel tragico finale, e nell'intermezzo di Cavalleria, dove la scelta di morte operata da Santuzza si traduceva nell'entrata in scena di figure ammantate di nero, greche chere di morte, che circondavano e avviluppavano Turiddu sotto gli occhi sconvolti della gelosa protagonista.
I bellissimi costumi di Sonia Cammarata, di netta ispirazione felliniana in Pagliacci, coloratissimi e per certi versi inquietanti, e mi riferisco a quelli delle maschere che attorniavano i protagonisti, e perfettamente aderenti alla tradizione siciliana in Cavalleria, uniti alle ottime coreografie di Sarah Lanza, che ha saputo abilmente sfruttare lo spazio scenico del Teatro Antico, hanno contribuito a creare veri e propri attimi di magia, ai quali il folto pubblico ha risposto con calorosi applausi anche a scena aperta.
Quanto al cast vocale scelto da Castiglione, non ha fatto rimpiangere per nulla quello dell'anno precedente, anzi: ha segnato, come la regia, un ulteriore approfondimento dei due drammi veristi, in quanto, per entrambe le opere, i protagonisti sono riusciti a imprimere uno slancio emotivo ancora più passionale e coinvolgente. La bella voce di Valeria Sepe, Nedda, ha tratteggiato un personaggio intenso e tormentato, dolce nei momenti lirici, complice un'ottima tecnica, una buona copertura e una notevole padronanza nei passaggi di registro, ma fiero e violento nel duetto con Tonio, interpretato da Giovanni Di Mare, che è riuscito a rendere anche da un punto di vista mimico tutta la malvagità del difforme innamorato respinto. Buona la prova di Giuseppe Di Stefano, Peppe ed Arlecchino, già presente nella passata edizione, e di Valdis Jansons, nei panni di Silvio.
La protagonista di Cavalleria, Silvana Froli, ha disegnato una Santuzza appassionata, dilaniata dal dolore e dalla gelosia: dotata di notevoli mezzi tecnici, ha espresso quella carica di erotismo tipicamente siciliano, fatto di rimorsi, di sensualità e di odio per la rivale, che era mancato all'algida e stilizzata, pur se elegante, interpretazione della Dessì. Curata nei recitativi, teneramente implorante nel duetto con Turiddu, ha dato prova di ottime doti di recitazione, curando il suo personaggio soprattutto nella gestualità. Civettuola e provocante Lola, Tan Hui si è distinta per una voce calda e pastosa, tecnicamente sicura e dal timbro molto interessante. Bene anche Valdis Jansons, un Alfio non stentoreo ma corretto, e Sofio Janelidze nel ruolo di Mamma Lucia; anche lei si è fatta notare per le doti sceniche e per l'appropriata mimica, doti oggi rare in cantanti interessati solo a snocciolare note…
Piero Giuliacci, al quale erano stati affidati i ruoli di Canio e di Turiddu, ha sostenuto una prova certamente ardua, sia per la fondamentale diversità scenica dei due personaggi, sia senz'altro da un punto di vista vocale: la sua bella tessitura ha spaziato in Pagliacci trovando ancora una volta i suoi momenti più alti nella celebre “Vesti la giubba”, dove è stato un Canio dolente, deluso, amareggiato, gravato da una sventura insostenibile, commovente sempre, dalla prima all'ultima nota. Il suo Turiddu è riuscito ad esprimere, sia vocalmente che con la mimica, il tormento interiore di un uomo dilaniato tra il primo amore, carnale e bruciante, e quello fatto di tenerezza, compassione e impegno morale per la donna alla quale ha promesso il matrimonio: in particolare, davvero sublime è stato il duetto con la Froli, in cui, con pochi gesti, con un esitare delle mani strette da Santuzza, ha reso tutta la profondità del tormento che si espliciterà più tardi prima del duello, nell'appassionato, disperato appello a Mamma Lucia “fate da madre a Santa”.
Il coro lirico siciliano, diretto da Francesco Costa, ha confermato la sua sicura crescita, evidenziata già in Aida a Siracusa: amalgama tra i personaggi, vero e proprio protagonista nei momenti in cui era solo sul palcoscenico, si è distinto per il profondo rispetto per la partitura, per la sicurezza tecnica dei suoi componenti, e per una sagace direzione che ha permesso, staccando i quattro gruppi di registro vocale, di fare del coro un vero e proprio strumento che si accompagnava all'orchestra rendendo finalmente palpabile la dimensione corale eminente soprattutto in Cavalleria.
Quanto all'orchestra, anche questa volta non si può non registrare una sicura crescita nella qualità delle produzioni di Castiglione: diretta da Yang Yang, l'Orchestra Filarmonica di Hang Zhou, proveniente dalla Cina, e giunta qui da noi a proprie spese, solo per mostrare al mondo quanto il suo paese sia cresciuto anche culturalmente, ha mostrato non solo grande padronanza tecnica, ancor più notevole data la giovane età dei suoi componenti, ma soprattutto una buona dose di immedesimazione nei confronti di un prodotto così altro quale il melodramma occidentale. Gli attacchi precisi e un buon equilibrio delle sonorità, che raramente sovrastavano i cantanti, si univano ad una razionale scelta dei tempi, che ha evitato tanti inutili e lenti compiacimenti che talvolta possono rallentare l'azione; in particolare, annoverava tra i fiati veri e propri professionisti, in grado di produrre un suono davvero pulito, nitido e gradevole.
Giuliana Cutore
3/8/2014
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