En blanc et noir
Debussy? No, Massenet. Si rappresenta Werther, al Teatro Massimo di Palermo, eppure è come se si volesse lanciare un ponte verso la posterità, verso quello che il mondo della musica e delle arti visive avrebbero immaginato nel secolo a venire, quel Novecento breve che il capolavoro di Massenet sembra voler anticipare con il suo disperato e disperante cupio dissolvi. L'operazione, in sé non priva di suggestioni, riesce a dar vita, però, unicamente a uno spettacolo in bianco e nero, dove le ombre sembrano sovrastare le luci, sottolineandole in maniera forse ancor più cruda ed evidente.
Gli elementi di interesse, tuttavia, non mancavano, a cominciare dalla presenza di Francesco Meli nel ruolo eponimo: non solo perché si tratta del tenore italiano attualmente più attivo sulle scene liriche internazionali, a partire dalla Scala, che quest'anno lo ha visto protagonista verdiano di Don Carlo e La traviata; ma soprattutto perché la sua interpretazione s'inseriva nel solco di una tradizione di artisti del nostro Paese che, sin dai primi del Novecento, si sono cimentati con il ruolo del jeune poète: prima di lui, per limitarsi alle scene palermitane, si erano esibiti Ferruccio Tagliavini (1945), Giuseppe Di Stefano (1954) e Vincenzo La Scola (2000), protagonisti di una significativa pagina della storia dell'interpretazione dell'opera di Massenet. Il tenore genovese non delude le aspettative, benché il timbro non sia di quelli indimenticabili e il passaggio di registro non sempre perfettamente saldato. E però è costante la ricerca, la tornitura di un fraseggio sempre in cerca delle più riposte risonanze della parola, con un uso dei filati che trova il momento di maggior pregio nel Lied del terzo atto, giustamente salutato da unanimi consensi. È un Werther sobrio e composto, il suo, ma che progressivamente si schiude – nella scoperta dell'amore – a una dimensione che lo anima, lo agita, infine lo dilania: e che efficacemente coniuga lo stupore avvertito di fronte allo spettacolo della natura con il lento, ma inesorabile precipitare verso una fine che è pacificazione con il mondo, prima ancora che con un sentimento impossibile.
Lo affianca in maniera sensibile quanto efficace la Charlotte di Veronica Simeoni, reduce dal recente debutto al Metropolitan di New York nel medesimo ruolo. Combatte, a tratti, con un'intonazione periclitante, ma si conferma oggi – forse seconda unicamente all'inarrivabile Anna Caterina Antonacci – tra le più convincenti interpreti italiane del repertorio francese. Non è giovane né spensierata, la sua Charlotte, ma matura e tormentata: e soprattutto fa discendere il suo Massenet, per li rami, da un'approfondita conoscenza di Berlioz, che le consente di scolpire il suo personaggio con determinazione, cura dell'accento, saldo controllo emotivo. Con grande gusto della sfumatura, suggella l'aria della lettera con toccante intensità di tratti. Di buon livello è anche la scelta degli interpreti dei ruoli secondari, a cominciare da Christian Senn, melodista intenso, raffinato, molto elegante nel tratteggiare un Albert rigoroso, forse benpensante, altoborghese; fin troppo civettuola è, invece, la Sophie di Serena Gamberoni, che risulta più a suo agio nei momenti lirici, segnatamente del secondo atto. Di bell'impatto il vigoroso, austero eppur bonario Bailli di Nicolò Ceriani, mentre Francesco Pittari e Claudio Levantino si disimpegnano con arguto sense of humour nei couplets in onore di Bacco, intonati da Schmidt e Johann. Completano il cast Gianfranco Giordano (Brühlmann) e Carmen Ghegghi (Kätchen), insieme al Coro di voci bianche, sin troppo effervescente, posto sotto la direzione di Salvatore Punturo.
Squaderna un'accattivante tavolozza la compagine orchestrale, che risponde all'ispirata bacchetta di Omer Meir Wellber. È una lettura interessante, quella proposta dal giovane direttore israeliano, perché opportunamente inscrive la partitura di Massenet in un più ampio contesto poetico, quello del tardo-romanticismo europeo. Non ci si meraviglierà, allora, nello scoprire forti legami da una parte con un'orchestrazione che in molti punti fa pensare a Brahms, ma che al tempo stesso guarda a Cajkovskij, alla sua disperazione lancinante, a una sensibilità a fior di pelle che è poi, effettivamente, anche quella di Werther. E l'orchestra risponde con impasti corposi, calorosi, avvolgenti, autentiche spire di estenuato lirismo che valorizzano l'arte internazionale del più raffinato compositore francese fin-de-siècle. C'è un aspetto, tuttavia, che sfugge a Wellber, e non dei minori: il canto. Perché se Werther fosse un poema sinfonico la sua sarebbe la miglior direzione possibile; il guaio è che sul palcoscenico ci sono anche dei cantanti, che andrebbero seguiti, assecondati, non sovrastati. E invece il maelstrom che soffia dalla buca tutto e tutti travolge, costringendo gli artisti impegnati sul palcoscenico a forzare per non restare sommersi, a lottare per trovare sfumature, chiaroscuri, gradazioni cromatiche che diventano, poi, interpretazione.
Ed è en blanc et noir, purtroppo, anche il palcoscenico. Che risponde alla regia di Giorgia Guerra, su scene di Monica Bernardi e costumi, sontuosamente vintage, di Lorena Marin. L'assunto di base diventa presto comprensibile – ben prima che cominci lo spettacolo – quando si viene accolti a teatro da eleganti hostess con autentico chignon d'epoca, che vendono sigarette e il programma dello spettacolo, in cui si annuncia una serata di “Cinema per una notte”: «Un dramma di amore e passione basato sul romanzo di Goethe». Mentre gli ultimi spettatori prendono posto in sala, sulla scena un anziano operatore fa scorrere le prime immagini di un film in bianco e nero anni Quaranta, dedicato allo sventurato eroe di Massenet. L'idea di ambientare Werther a metà strada tra Catene e Nuovo Cinema Paradiso non è certo originale ma potrebbe anche risultare efficace: la somiglianza fisica tra Meli e, poniamo, Rossano Brazzi, è tale da giustificare l'operazione. Quello che, tuttavia, non poco lascia sgomenti è l'horror vacui che muove la regista a creare una quantità francamente insopportabile di controscene, soprattutto a vantaggio del piccolo, ma invadente manipolo dei fratellini di Charlotte e di Sophie, che costringono anche le sorelle più grandi a giocare nei momenti più inverosimili. Ne scaturisce, soprattutto, una visione dell'opera antica e spesso antiquata, tra cascate di glicine, chiesette di campagne e cieli solcati da irrefrenabili voli di rondine che elevano il tasso glicemico di Werther verso vette difficilmente tollerabili. Perché, alle volte, non basta un poco di zucchero per mandar giù la pillola…
Giuseppe Montemagno 17/6/2017
Le foto del servizio sono di Rosellina Garbo.
|