RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Il Flauto muto

Die Zauberflöte venne messa in scena il 30 settembre 1791 al Freihaus-Theater auf der Wieden su libretto del direttore stesso del teatro, Emanuel Schikaneder, e musica di Mozart. All'epoca questo teatro era conosciuto per le messinscene fantasmagoriche, eredi dirette dei fasti operistici barocchi, e per i suoi soggetti immaginifici e surreali: «Sul palco apparivano veri leoni, scimmie, serpenti, e montagne e palazzi, prigioni e giardini, grotte con cascate, sale colonnate e templi a creare le ambientazioni» (Tadeusz Krzeszowiak, Freihaustheater in Wien 1787-1801 ).

Al giorno d'oggi, solo il cinema riesce a essere più visionario del teatro, grazie agli effetti speciali. Ed è proprio al cinema, in particolare al muto, che si rifà l'allestimento scelto dal Teatro Regio di Torino per la messinscena di questo lavoro, riprendendo idealmente l'impatto visivo del teatro di Schikaneder e trasponendolo al giorno di oggi – o quasi: meglio dire di inizio Novecento, con rivisitazioni e aggiunte di tecniche un tempo non disponibili. L'idea, già presentata in Italia al Teatro dell'Opera di Roma nell'ottobre del 2018, occasione in cui fu presente chi scrive, è venuta al gruppo artistico «1927» – Barrie Kosky, regista teatrale, Sovrintendente della Komische Oper di Berlino; Suzanne Andrade, regista teatrale e attrice; Paul Barritt, produttore cinematografico –, che mette in scena un Flauto magico come se fosse un film muto degli anni Venti, condito con una buona dose di surrealismo e di animazioni che accompagnano dall'inizio alla fine lo svolgersi della vicenda; o meglio, più che film, una pantomima onirica e fiabesca (ma d'altronde Die Zauberflöte è una fiaba). Trattandosi non di un'opera ma di un Singspiel, con parti cantati alternate a parti dialogate, ricorrere al cinema muto non è sembrato proprio il massimo della funzionalità; l' impasse è stato superato tagliando buona parte dei dialoghi e salvando solo quelli strettamente necessari a fare da collegamento tra i passaggi in musica, proiettando le battute – rigorosamente in tedesco, cosa che, nonostante i sopratitoli, limita la fruizione a chi non ne padroneggi il significato – sul fondale del palcoscenico, divenuto per l'occasione schermo cinematografico. A colmare le lacune di silenzio provvedono passaggi tratti da due Fantasie per pianoforte di Mozart, la KV 397 in re minore e la KV 475 in do minore (ma eseguite al fortepiano): con un fine e attento lavoro di taglia e cuci, i passaggi selezionati riescono a modo loro a commentare le battute e l'azione sul palcoscenico, e riescono anche piuttosto bene. Ma è azione mimica limitata da diversi fattori. Il primo, s'è già detto, è che mancano del tutto i dialoghi, quei momenti in cui sarebbe stato possibile caratterizzare i personaggi grazie a posture e atteggiamenti, a inflessioni della voce e a tutta la scenica scienza e l'istrionismo che un interprete ad esempio di Papageno deve, e sottolineo deve, possedere, in questo caso del tutto demandate alle animazioni. Il secondo, che è corollario del primo, è che i cantanti quasi non interagiscono, da un lato per dare spazio alle animazioni a tutto “schermo”, dall'altro perché sono distanziati tra loro dalla dislocazione sul palcoscenico – cosa giustificata dal «1927» sulla base di una (presunta) solitudine di fondo di tutti i personaggi –: molto spesso si trovano infatti a svariati metri di altezza, si spera assicurati a dovere a piccole pedane montate su pannelli girevoli. È così, per esempio, che compaiono e scompaiono le tre Dame, la regina Astrifiammante, Sarastro, verso la fine Papagena (per la quale è stato previsto il taglio integrale della scena in cui si presenta dapprima come vecchietta che ha compiuto diciotto anni e due minuti, tutta recitata: perché poi debba comparire dopo che una bomba ha consumato la sua miccia e sia esplosa con fragore prolungato e scritta in stile cartone animato KABOOM! , annerendo e bruciacchiando in parte sia il suo costume, sia quello di Papageno, resta un mistero), ed è così che vengono svolte diverse scene, come la preparazione di Tamino e Pamina in vista delle prove, dove vengono debitamente “dopati” da siringate di parole in tedesco (lo stantuffo di una siringa comprime le lettere delle parole fino a eiettarle verso e “dentro” i cantanti) o il pasto di Papageno, che gli viene servito sotto forma di polli allo spiedo in stile cartoon su vassoi automatici: il tutto mentre i personaggi restano fermi nella loro posizione sul piedistallo sospeso.

La fantasia abbonda, con Papageno e Pamina che corrono sopra i tetti di una città notturna, e falcia via tutta la simbologia massonica dell'originale: la prova del fuoco diventa la prova del diavolo sputafuoco; nella prova dell'acqua, dove Pamina e Tamino sono incatenati sul fondo del mare, i potteriani più fedeli avranno visto un riferimento al quarto volume della saga; ma, tolte alcune trouvailles un po' troppo fuori luogo – la già menzionata bomba, gli elefantini rosa che Papageno inizia a vedere dopo aver bevuto un cocktail rosa anch'esso, Monostatos e i suoi animali che, ammansiti dal carillon di Papageno (il flauto invece non compare mai: al suo posto, una libellula che semina una scia di note), ballano una specie di lento cancan in tacchi rossi e calze e guêpière, tutto proiettato, ça va sans dire: per brevità si ometterà di qui innanzi che i particolari più curiosi sono proiettati –, vi è una logica tutta sui generis che non dispiace: la Regina della Notte è presentata come un ragno scheletrito, che nella prima aria impedisce a Tamino di fuggire con le sue lunghe zampe, a mo' di sbarre di una cella, o lo fulmina con scariche elettriche, e nella seconda lancia pugnali rossi a una Pamina che a un certo punto si vede assalita e ricoperta da una miriade di piccoli ragnetti: simbolo del male che tesse la sua tela, di una tossica relazione familiare, di una personalità in grado di plagiarne un'altra. Al suo opposto, Sarastro appare sempre accompagnato da congegni meccanici, vagamente ispirati a disegni di ottica, con sezioni di teste dove girano ingranaggi dentati, occhi che scrutano proiettando coni di luce: simboli di logica, di razionalità, massonicamente connessi a Sarastro. Per contro, Monostatos guida una muta di cani feroci, istintiva forza e pulsione animalesca; Tamino e Papageno sono invece accompagnati da un gatto, come nella tradizione araba (e bene o male l'opera è – o sarebbe – ambientata in Egitto) in cui il cane è l'animale fedele ma stupido, in questo caso fedele a un padrone cattivo, il gatto l'animale eletto.

I costumi sono un omaggio a figure emblematiche del muto, con occasionali richiami al mondo del vaudeville e del café-concert: Monostatos è il Nosferatu di Murnau e di Herzog, in Papageno c'è qualcosa di Buster Keaton, Pamina ha il caschetto nero di Louise Brooks, Sarastro, in blazer e cilindro neri e lunga barba grigia, come gli altri adepti della confraternita, sono il simbolo dell'alta borghesia fin de siècle, propugnatrice di un certo razionalismo positivista, cui si allude coi già ricordati congegni meccanici. Papagena è una soubrette in piume gialle, una sgargiante showgirl che, durante il duetto Pa…Pa…Pa… si prefigura già madre prolifica di tanti piccoli eredi che saltellano da una stanza all'altra della loro casetta, attorno alla quale sbocciano fiori disegnati con mano infantile, simbolo di un nuovo inizio all'insegna di quella naïveté, di quella felicità senza pretese cui Papageno anela fin dall'inizio.

Tanto dispiego e dispendio di energie sceniche impediscono, come detto, agli interpreti di esibire le loro doti attoriali. Ci si limiterà perciò a riferire del loro esclusivo lato canoro. Nel suo insieme la prima compagnia si attesta omogeneamente su un buon livello, pur senza punte di eccellenza, con l'eccezione di Gabriela Legun, scritturata per la seconda compagnia ma che alla prima, venerdì 31 marzo 2023, di cui si dà conto, sostituisce l'indisposta Ekaterina Bakanova nel ruolo di Pamina: buona prestazione, la sua, che si fa soprattutto apprezzare nell'aria del secondo atto, Ach, ich fühl's, per il suo lirismo, talvolta un po' stereotipato. Joel Prieto è un Tamino che dà il suo meglio nei passaggi più morbidi in grazia di uno strumento chiaro, duttile e leggero, benché un po' carente ove è richiesta maggiore ampiezza. Pienamente all'altezza Alessio Arduini quale Papageno, baritono di volume discreto ma di ammirevole espressività, ruolo interpretato, pur nella contenuta effervescenza cui la regia lo limita, davvero comme il faut. Non richiesto dal suo ruolo vocale, il volume contenuto di Arduini non è un fattore limitante, ma lo diventa per In-Sung Sim, chiamato a interpretare Sarastro, personaggio che fa, o dovrebbe fare, della solennità e della gravitas gli elementi portanti della sua vocalità: elementi che si rilevano solo in tracce in Sim, in difficoltà nella tessitura grave, coperta dall'orchestra, come in quella centrale, appena sufficiente. Pienamente approvata, invece, la Regina della Notte di Serena Sáenz: in lei, tolta una lieve défaillance in O zittre nicht, l'aria del primo atto, si condensano doti di virtuosa che si esplicano in colorature ben eseguite e picchettati netti e staccati, tecnicismi non fini a se stessi ma vitalizzati da incisivi affondi di pura “cattiveria” musicale.

Di notevole rilievo il cast restante, a cominciare dal Monostatos di Thomas Cilluffo, perverso ma inoffensivo: ben riuscita l'aria Alles fühlt der Liebe Freunden (tematicamente imparentata col rondò finale del Concerto “Jeunehomme” KV 271, scritto quattordici anni prima), dove Monostatos tenta di insidiare una addormentata Pamina infilandosi letteralmente nel suo letto in una originale inquadratura dall'alto. Frizzante ed estrosa la Papagena di Amélie Hois, che, insieme a Cilluffo, si è fatta apprezzare anche nella recente produzione di Powder her face di Thomas Adès, inscenata al Piccolo Regio in marzo. Cilluffo e Hois sono artisti del Regio Ensemble, come Rocco Lia (Secondo Armigero) e Ksenia Chubunova (Seconda Dama); completano il cast Lucrezia Drei (Prima Dama), Margherita Sala (Terza Dama), Enzo Peroni (Primo Armigero), e i tre Fanciulli (che in realtà sono fanciulle) Viola Contartese, Alice Gossa e Isabel Marta Sodano, trasportati in volo in un cestino da mongolfiera da una gigantesca falena sinistramente simile, per colore e morfologia, all'Acherontia atropos, divenuta famosa col Silenzio degli innocenti e soggetto di una delle più belle poesie di Gozzano.

L'Orchestra e il Coro del Teatro Regio di Torino si dimostrano ancora una volta encomiabili per nettezza e precisione e per omogeneità delle diverse sezioni, quest'ultimo istruito da Andrea Secchi. La direzione la concertazione sono affidate a Sesto Quatrini, sul cui operato si stendono luci e ombre. L'avere a che fare con una regia così particolare lo pone nella condizione di adattare i tempi alle animazioni e ai bruschi cambi d'intenti che la musica viene ad avere in forza delle animazioni stesse: tempi quindi non sempre di tradizione, tendenzialmente più snelli, più nervosi, più rapidi, a cominciare da un'Ouverture di straniante velocità – che, tocca dirlo, perde di maestosità nelle sezioni lente e si carica di una frenesia che non le appartiene in quelle incalzanti –, ma che vanno bene per sincronizzarsi, appunto, col palcoscenico. A farne le spese sono i momenti più intimi e lirici, la già ricordata aria di Pamina e quella “del ritratto” di Tamino, ad esempio, e, quasi di conseguenza, quelli riservati a Sarastro, Armigeri e adepti vari, i momenti cioè più solenni, più cerimoniosi, come il corale “alla Bach” del secondo atto. Ma, a giudicare dagli applausi trionfanti e dalla sala gremita, c'è da credere che lo spettacolo sia riuscito gradito anche così.

Christian Speranza

18/4/2023

Le foto del servizio sono di Andrea Macchia.